Chi saprà dare un partito a questa piazza?

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Bastava guardarsi intorno per rendersi conto che in piazza San Giovanni e lungo le vie di Roma che hanno visto sfilare il corteo per la PACE s’era riunito un popolo. C’era Vittorio Agnoletto, con le sue mille battaglie sulle spalle, la sua passione civile mai sopita e il suo impegno che non si ferma e non di fermerà mai. C’erano i laici, i cattolici, le ACLI, la CGIL, l’ARCI, la politica migliore ma soprattutto, ribadiamo, c’era un popolo. Persone che hanno subito innumerevoli sconfitte, persone stanche, persone che talvolta hanno gli occhi gonfi di lacrime, persone in difficoltà o, semplicemente, sfinite dopo decenni di liberismo selvaggio e politiche sbagliate. Eppure, per la prima volta dopo decenni, si avvertiva forte il desiderio di unità di questa moltitudine. Se li avessimo intervistati uno a uno, con ogni probabilità, avremmo avuto chiaro il quadro dello sfarinamento della politica. Questa gente non ha votato allo stesso modo, non lo fa da almeno trent’anni e forse non è nemmeno un male. Fatto sta che sui valori fondanti si ritrova, si riconosce, decide di camminare fianco a fianco e di prendersi per mano. E così, potevamo ammirare l’entusiasmo di questi mille colori, in una piazza arcobaleno in cui davvero ogni organizzazione ha avuto la saggezza di fare un passo indietro, ponendo al centro il principio della pace, elemento costitutivo del nostro stare insieme, presupposto senza il quale tutto perde di senso.

C’era un desiderio di riscossa in quella piazza, il riscatto di un’idea di bellezza. Sembrava quasi che il movimentismo dei primi anni Duemila avesse ritrovato, finalmente, un luogo in cui esprimersi, come se il Movimento dei movimenti si fosse nuovamente materializzato davanti ai nostri occhi. Ho abbracciato e stretto a me Adarosa, che di Genova e del suo dolore ne è una testimone diretta, e nel suo sorriso autentico ho trovato un messaggio di speranza. Avevo accanto a me mio padre, ed era bellissimo questo sfilare fianco a fianco di generazioni diverse, disposte a spendersi con coraggio ed entusiasmo per inviare il segnale di chi non vuole arrendersi. Ho manifestato insieme all’ARS e ad Articolo 21, perché quelle persone meravigliose mi hanno insegnato a fare rete, a tenere insieme, a unire, a non fermarmi a piangere, a crederci sempre e a rilanciare la sfida di un altro mondo possibile, anche quando tutto sembra ormai perduto.
Ho visto i giovani e i meno giovani, ho ascoltato canzoni emozionanti, ho ammirato ragazze e ragazzi che ballavano e non c’era posto per l’odio, per i rimpianti, per il rancore.
Nessuno di noi ha mai sostenuto Putin: lo avversiamo dal luglio 2001, quando Berlusconi lo accolse con tutti gli onori a Genova e il nostro si rese protagonista di quel vertice che sappiamo com’è finito, non solo per quanto riguarda le violenze ma anche per quanto concerne i risultati inesistenti di riunioni complessivamente fallimentari. Sappiamo bene chi sia l’aggressore e chi sia l’aggredito, conosciamo la situazione ucraina e ci stringiamo, da sempre, al fianco della dissidenza russa. Non a caso, erano con noi anche figure straordinarie come Marco Tarquinio e padre Enzo Fortunato, don Ciotti e padre Alex Zanotelli. C’era pure Travaglio con il gruppo del Fatto, in prima linea nel chiedere se non la pace almeno una tregua. È stato bello, poi, osservare il volto sorridente di Anna Falcone e Tomaso Montanari, sapendo che poco distante da noi stava marciando Donatella Di Cesare, cui da qui vogliamo rivolgere un abbraccio per il disgustoso carico di insulti e offese che ha dovuto subire dallo scorso 24 febbraio solo perché si è opposta all’invio di armi e ha provato a fornire una visione del mondo alternativa. Sicuramente abbiamo dimenticato qualcuno, pertanto ci fermiamo qui. Non ci stanchiamo, invece, di ribadire le nostre ragioni, le ragioni del pacifismo, della convivenza civile, della mitezza e dell’amore per il prossimo, senza fare sconti ai carnefici e sostenendo convintamente le vittime, cui chiediamo che vengano risparmiate ulteriori sofferenze.
Ora bisogna interrogarsi. Perché questo popolo non si accontenta più di pacche sulle spalle e parole intense scandite dal palco. Esige, a ragione, una rappresentanza, ha bisogno di un partito, di un giornale, di una voce e di potersi esprimere liberamente. Ha bisogno di ritrovare una casa, dei compagni e delle compagne con i quali condividere le proprie esperienze, di una storia da raccontare e di un’identità precisa nella quale riconoscersi. Non ci basta più, ci uniamo convintamente al coro, quest’universo litigioso e frastagliato che al dunque non è in grado di fare fronte comune. Non vogliamo lasciare a questa destra campo libero. Non ne possiamo più di perdere senza neanche combattere. Non vogliamo rassegnarci a un’idea d’Italia che ci spaventa e, talvolta, ci desta addirittura ribrezzo, ad esempio quando vengono lasciati in mezzo al mare degli esseri umani in fuga dalla miseria e dalla guerra, mentre il vento gelido taglia loro il viso e il mare agitato li terrorizza. Abbiamo bisogno di gentilezza, di tornare a sentirci fratelli e sorelle, di riaffermare un’umanità che nel corso del tempo si è perduta. Se l’attuale classe dirigente della sinistra non ha voglia di offrirci una rappresentanza adeguata, stavolta siamo chiamati a costruire noi qualcosa. Dal basso, con convinzione, senza timori né esitazioni. Perché di piazze come questa ne avvertiamo la necessità, essendo il sale della democrazia, la risposta più bella alla paura, un baluardo contro l’orrore dal quale siamo circondati. Non vogliamo sprofondare nell’abisso: né in quello senza ritorno dell’atomica putiniana né in quello del vuoto della politica italiana. Se questo popolo, ancora una volta, non sarà ascoltato, dovrà mobilitarsi. Pacificamente, con riunioni e incontri, mettendo insieme mondi che possono e devono ritrovarsi per il bene della comunità nel suo insieme. La destra è forte ma meno di quanto non si pensi e non venga descritta da una stampa troppo spesso compiacente. Non sono invincibili: sono, a loro volta, pieni di contraddizioni. Il problema vero siamo noi, che abbiamo le persone ma non il collettivo. La stagione del disincanto, dell’egoismo e della fuga dalle responsabilità è terminata. Adesso dobbiamo unirci, altrimenti il nulla che spegne ogni speranza e inghiotte ogni aspirazione di un futuro migliore finirà col travolgerci.

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