Analisi a “Il secolo della solitudine” di Noorena Hertz

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La solitudine non è certo un sentimento che nasce in questo secolo. Ma è in questo periodo storico che abbraccia e viene abbracciata da altri e differenti aspetti della società, originando quella che Noreena Hertz definisce economia della solitudine, nata per sostenere e sfruttare chi si sente solo.

La solitudine che Noreena Hertz racconta non si limita alla frustrazione del desiderio di avere qualcuno vicino, è un male sottile che si è insinuato dentro di noi e ha permeato ogni aspetti della nostra società. È la solitudine strutturale del sistema capitalistico, che ci spinge a pensare solo a noi stessi e a vedere gli altri come concorrenti o nemici.

È l’isolamento provato dalle persone che si sentono trascurate e tradite dai propri rappresentanti e dalle istituzioni, al punto da lasciarsi sedurre dal richiamo del populismo e degli estremismi politici.

Una situazione in continua crescita che, a partire dal lockdown da Covid-19 del marzo 2020, non poteva che aggravarsi.

In tutto il mondo, gli operatori dei numeri telefonici per la salute emotiva hanno riscontrato non solo notevoli picchi nel volume di chiamate durante i giorni di distanziamento sociale forzato, ma anche che un numero significativo di chiamate arrivava da persone che soffrivano la solitudine.

In Germania, dove a metà marzo le linee di assistenza stavano ricevendo il 50 per cento di chiamate in più del solito, uno psicologo che rispondeva alle chiamate ha notato che la maggior parte di chi chiama aveva più paura della solitudine che di essere contagiato.

Quando la pandemia è iniziata in tantissimi già si sentivano soli.

Tre adulti su cinque negli Usa si consideravano soli. In Europa la situazione era simile: quasi un terzo dei cittadini olandesi ha ammesso di essere solo, uno su dieci profondamente; in Svezia un quarto della popolazione ha detto di essere solo frequentemente; in Svizzera due persone su cinque hanno dichiarato di sentirsi a volte, spesso, o sempre sole; nel Regno Unito il problema era diventato talmente grave che nel 2018 il primo ministro è arrivato al punto di nominare un Ministero della Solitudine.

I dati per l’Asia, l’Australia, il Sud America e l’Africa erano altrettanto preoccupanti.

Gli anziani sono la categoria a cui siamo portati a pensare per primi quando riflettiamo su chi siano i più soli tra noi. Eppure, in realtà, e forse sorprendentemente, i più soli sono proprio i giovani.

In quasi tutti i paesi dell’Ocse la percentuale di quindicenni che dicono di sentirsi soli a scuola è aumentata tra il 2003 e il 2015.

Anche in questo caso è ipotizzabile un incremento a causa del Covid-19.

Più volte Noreena Hertz sottolinea che non si tratta di una crisi di salute mentale bensì di una crisi che ci sta facendo ammalare fisicamente.

La solitudine è più dannosa per la salute di quanto non lo sia l’assenza di esercizio fisico, è nociva quanto l’alcolismo e due volte più nociva dell’obesità.

La solitudine che stiamo vivendo nel ventunesimo secolo copre uno spettro molto più ampio della sua definizione tradizionale. Nell’accezione presa in considerazione dall’autrice, non è solo il sentirsi privi di compagnia o intimità, e nemmeno il sentirsi ignorati, invisibili o trascurati da coloro con i quali si interagiva regolarmente. Si tratta di sentirsi anche senza sostegno e cura da parte dei nostri concittadini, dei datori di lavoro, della comunità, del governo. È l’essere distanti non solo da quelli a cui dovremmo sentirci vicini, ma anche da noi stessi. Non è solo la mancanza di sostegno in un contesto sociale o familiare, ma anche sentirsi politicamente ed economicamente esclusi. Include anche quando ci sentiamo tagliati fuori dal nostro lavoro e dal nostro ambiente lavorativo.

Uno stato non tanto interiore quanto esistenziale: personale, sociale, economico e politico.

Negli anni precedenti la pandemia di coronavirus, due terzi di coloro che vivevano in una democrazia pensavano che il proprio governo non agisse nel loro interesse.

Ma quello che si chiede Noreena Hertz è come si è arrivati a questo punto.

Le cause dell’odierna crisi di solitudine sono varie e numerose. Rientrano gli smartphone e tutti quei dispositivi digitali che ci isolano dal mondo reale ma vanno annoverate per certo le discriminazioni strutturali e istituzionali. Discriminazioni di natura razziale, etnica, xenofoba, sessista, sul lavoro come nella quotidianità.

I fondamenti ideologici della crisi di solitudine del XXI secolo risalgono, per Hertz, invece agli anni ’80, quando si affermò una forma particolarmente dura del capitalismo: il neoliberismo, un’ideologia con un’enfasi preponderante sulla libertà – di scelta, di mercato, dei governi dall’interferenza dei sindacati. Un’ideologia che premiava una forma idealizzata di autonomia, un governo debole e una mentalità brutalmente competitiva che poneva l’interesse personale al di sopra delle comunità e del bene collettivo.

In Germania, Regno Unito, Stati Uniti e Canada circa la metà della popolazione pensava fosse così, e molti pensavano che lo Stato fosse così asservito al mercato da non prendersi più cura di loro o da non preoccuparsi più dei loro bisogni.

In effetti gli enormi interventi che i governi hanno fatto per sostenere i propri cittadini nel corso del 2020 sono stati in netto contrasto con l’etica economica dei quarant’anni precedenti.

Un ulteriore tema, collegato con il diffuso senso di solitudine attuale, che Hertz analizza in profondità, è il progressivo isolamento dal mondo reale per rifugiarsi nella realtà virtuale della Rete e dei social. Quest’ultimi in particolare trasformano i cittadini in bugiardi sempre più insicuri alla continua ricerca di “mi piace”, follower e prestigio sociale online incoraggiandoli a presentare versioni sempre meno autentiche di se stessi.

Le vite condivise online sono un’accurata serie di momenti felici e ideali, feste e celebrazioni, spiagge di sabbia bianca e foto di piatti da acquolina in bocca. Il problema è, sottolinea Hertz, che queste versioni ritoccate e filtrate di noi stessi sono troppo spesso estremamente lontane dalla nostra vita reale.

In un mondo in cui la comunità sembrava sempre più sfuggente, ma il bisogno di appartenenza è rimasto, le imprese sono intervenute per colmare il vuoto. L’economia della solitudine ha iniziato a espandersi – e non solo nella sua forma tecnologica – con gli imprenditori che hanno trovato modi sempre più innovativi per soddisfare il perenne bisogno della gente di ciò che il sociologo del primo Novecento Émile Durkheim chiamava «effervescenza collettiva», ovvero il lieto inebriamento che otteniamo quando facciamo qualcosa con gli altri, di persona (in palestre, club, pub, ritrovi, circoli, sale da ballo, gite, escursioni, sale da gioco…).

Tuttavia, queste innumerevoli attività intraprese per colmare un vuoto esistenziale con il loro inebriamento di certo non possono bastare per sconfiggere l’isolamento, la solitudine di questo millennio. Va precisato forse, a scanso di equivoci, che Hertz non è contraria a questo genere di attività per definizione, bensì allorquando vengono utilizzate per sfruttare il senso di solitudine delle persone per mero scopo di lucro.

Una solitudine che non è certo una forza singolare. Vive all’interno di un ecosistema. Se quindi si vuole fermare la crisi di solitudine necessita un cambiamento sistematico sul piano economico, politico e sociale e, al contempo, prendere atto della responsabilità personale di ognuno.

Per risolvere il senso di abbandono che in tantissimi provano, non ci si può limitare, per l’autrice, a garantire che tutti i cittadini dispongano di un’efficace rete di protezione sociale, che gli obiettivi di bilancio dei governi siano meglio allineati con il benessere complessivo dei cittadini e che le disuguaglianze strutturali siano affrontate, anche in merito a questioni di razza e di genere. Bisogna anche assicurarsi che le persone siano poi adeguatamente assistite e protette, anche sul luogo di lavoro.

Per risolvere almeno in parte la crisi di solitudine di questo secolo, quindi, bisogna fare in modo che le persone siano viste e ascoltate.

Costruire un futuro completamente diverso, in cui riconciliare il capitalismo con la comunità e la compassione, assicurandosi di ascoltare molto di più le persone di qualsiasi estrazione e venga consentito loro di avere una voce, esercitando la comunità in una forma inclusiva e tollerante.

Più in generale, è necessario un cambio di mentalità. Bisogna ritrasformarsi da consumatori a cittadini, da egoisti ad altruisti, da osservatori indifferenti a partecipanti attivi.

Per fare questo, spiega Noreena Hertz, è necessario:

  • Cogliere le opportunità di esercitare la nostra capacità di ascolto, sia nel contesto lavorativo che in quello privato e personale.
  • Accettare che a volte ciò che è meglio per il collettivo non coincide con ciò che è nel nostro immediato interesse.
  • Impegnarsi a far sentire la propria voce dove possibile per portare un cambiamento positivo.
  • Impegnarsi nell’esercitare attivamente l’empatia.

Perché più a lungo trascuriamo la nostra responsabilità di prenderci cura l’uno dell’altro, più perderemo la capacità di fare tutte queste cose. E più perderemo la capacità di fare tutte queste cose, meno umana sarà, inevitabilmente, la nostra società.

L’antidoto al secolo della solitudine, in fin dei conti, può essere solo l’esserci l’uno per l’altro, indipendentemente da chi sia l’altro.

Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni di Noreena Hertz è un libro molto “crudele”, nel senso che pone il lettore faccia a faccia con scomode verità e con la cruda realtà. Un libro da leggere assolutamente.

Il libro

Noreena Hertz, Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni, Il Saggiatore, Milano, 2021.

Titolo originale: The lonely century. Traduzione di Luigi Muneratto.

L’autrice

Noreena Hertz: Economista e consulente per multinazionali e organizzazioni non governative. Attualmente dirige il Centre for International Business and Management dell’Università di Cambridge.


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