Paul Auster “Trilogia di New York”

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A Paul Auster ho dedicato il mio ultimo libro La vita e altri imprevisti, che forse non sarebbe neppure nato se non avessi incontrato il suo “Esperimento di verità”, una lettura illuminante sul caso, il destino, le coincidenze:

“Quel piccolo interstizio che nessuno ha esplorato completamente, ma dove, in certi momenti, viviamo tutti.”

Il primo maggio era giunta la notizia della sua morte; Auster stava molto male da un paio d’anni e poteva andarsene da un momento all’altro. Già dal giorno successivo alla scomparsa, non si trovava più un suo solo titolo in libreria né su Internet. L’intera opera risultava in ristampa, prima tra tutte quella “Trilogia di New York” che gli aveva donato immediata notorietà e che avrei voluto tenere tra le mani, parlarne, presentando il mio libro. Poi a dispetto di ogni logica ne era apparsa una copia mescolata ai miei volumi posti in mostra su un tavolinetto. Il libraio, Giovanni, non aveva saputo trovare spiegazioni e, meravigliato non meno di me, aveva solo mormorato: “Ci si è messo da solo”.  Ho subito afferrato il libro perché non mi sfuggisse, era lì per me, una materializzazione. Lo maneggiavo come un atto di magia, una reliquia. Presentando il mio libro, mi ero soffermato più a lungo sul racconto del Cervo. Quella sera stessa avevo terminato di leggere “Baumgartner” l’ultimo libro scritto e pubblicato da Paul Auster. Ebbene proprio nell’ultima pagina il protagonista, guidando fuori dei sobborghi di Princeton, aveva dovuto inchiodare perché un grande cervo s’era piazzato all’improvviso al centro della carreggiata. Mi era sembrata una combinazione stupefacente: lo scrittore a cui avevo dedicato il mio libro, passato da poco a nuova vita, aveva voluto inviarmi un cenno di intesa, un sorriso di saluto. Non sapevo interpretare altrimenti quella coincidenza così eloquente.

Perché? Chi è Paul Auster? La maniera migliore per entrare dalla strada maestra nella sua narrativa è accostarsi alla “Trilogia di New York”. Sono tre brevi romanzi, di circa cento pagine ciascuno: Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa. Si presentano ingannevolmente come tre classiche detective stories, e di fatto lo sono, dal momento che al centro di ognuna troviamo un investigatore impegnato in una indagine con tutti i crismi: appostamenti, pedinamenti, incontri sotto copertura, situazioni ad altissima tensione.

Il primo racconto ha un attacco infallibile:

“Cominciò con un numero sbagliato, tre squilli di telefono nel cuore della notte e la voce all’apparecchio che chiedeva di qualcuno che non era lui”.

Quinn è uno scrittore di trentacinque anni che sbarca il lunario pubblicando libri gialli con lo pseudonimo di William Wilson: “Li produceva al ritmo di circa uno all’anno, il che gli garantiva abbastanza denaro per vivere modestamente in un piccolo appartamento di New York”.

La telefonata in piena notte costringe Quinn ad alzarsi dal letto: all’altro capo del filo c’è uno sconosciuto, alquanto confuso e in grosso affanno, che invoca il suo aiuto per un pericolo mortale incombente. Però non cerca né Quinn, e tantomeno Wilson, bensì un supposto detective di nome Auster. E noi sappiamo bene che Auster è l’autore del libro che abbiamo tra le mani, quindi deve essersi creato un singolare cortocircuito. Lo scambio di identità ci incolla alle pagine del romanzo. Entriamo così in un labirinto di specchi, che è la cifra narrativa dello scrittore di Newark, nel New Jersey, la stessa città di Philip Roth, con il quale erano amici fraterni. Entrambi provenienti da famiglie ebree emigrate dall’Europa dell’est (nel nostro caso l’Ucraina) per cercare in America la salvezza e un possibile futuro. Lunghe ombre che affiorano su ogni ricordo.

Nel secondo romanzo i protagonisti hanno i nomi legati ai colori, Blu, White, Brown. Negli Stati Uniti accade più di frequente che da noi, dove peraltro non scarseggiano i Rossi e i Bianchi. Anche questa storia possiede un “omen”, che in inglese come in latino ha il significato di presagio, destino ma anche incantesimo. Blue è un investigatore ordinario, ingaggiato da un certo White che comunica con lui soltanto al telefono; il compito, regolarmente remunerato, sarà quello di pedinare Black, anzi di sorvegliarlo notte e giorno, senza perderlo mai di vista, inviando il resoconto settimanale a un indirizzo di comodo. L’impresa, come si può arguire, sconvolge radicalmente le abitudini di vita del detective, costretto, se vuole svolgere coscienziosamente l’incarico, a sacrificare ogni relazione personale, persino gli incontri con la fidanzata in attesa di convolare a nozze. Gli spiacevoli incerti del mestiere; anche suo padre era un agente di polizia, “poi promosso a detective nel Settantasettesimo distretto, fino a quando quella pallottola gli aveva attraversato il cervello nel 1927”.

Nel terzo romanzo incontriamo Fanshawe (si pronuncia fàn-scio), l’amico inseparabile dello scrittore dall’infanzia alla prima giovinezza; il fascinoso Fanshawe che ha sempre sovrastato il compagno in qualsiasi campo della vita, anche sul piano letterario. La trama ricorda per assurdo I Duellanti di Conrad, sebbene non vi siano assalti all’arma bianca né sfide all’ultimo sangue.

I due personaggi, divenuti adulti, hanno seguito strade diverse, non si vedono più almeno da un decennio. Accade che Sophie, la moglie di incantevole bellezza abbandonata da Fanshawe da un giorno all’altro, senza alcuna ragione e con un figlio appena nato, si rivolga inaspettatamente all’antico amico, non avendo più alcuna notizia del marito: sparito per sempre senza lasciare tracce, verosimilmente morto.  Vorrebbe che fosse lui, aspirante scrittore senza gloria, a curarne l’inedita e ingente produzione letteraria; carta bianca sulla scelta dell’editore, il progetto di stampa, i diritti, la campagna di lancio. Ammaliato da lei fin dal primo promettente scambio di sorrisi, il narratore finisce ineluttabilmente per prendere il posto di Fanshawe sposandone la vedova dopo un assiduo, attento, trepidante corteggiamento. Ha capito che è lei il suo compimento, la sua fortuna, il suo destino. Ma ancora una volta l’inchiesta sull’amico scomparso avviene non fuori bensì dentro la mente del narratore, che ci attira sulle proprie orme fino alle estreme conseguenze. La suspence è tesissima, come in quei vecchi incomparabili hard boiled americani che hanno fatto ovunque scuola.

Nell’attuale superfetazione del genere poliziesco, le trame a macchinetta finiscono per non lasciare alcuna traccia, e il pubblico si sta istintivamente orientando verso i thriller psicologici; pensate al recente successo di Ripley, il personaggio indimenticabile di Patricia Highsmith, riproposto in bianco e nero nella serie TV sceneggiata e diretta da Steven Zaillian. La tendenza è quella di una chiave postmoderna, carica di echi, di rimandi, di memorie, di cui Paul Auster è un riconosciuto campione. Abilissimo nel riutilizzare i generi rovesciandoli come guanti e di costruire le sue detective stories verso l’accertamento se non di una indimostrabile colpevolezza, quantomeno di una verità enigmatica, sfuggente, che continua a scivolarci di mano. Kafka? Non c’è dubbio che sia lui il capofila, l’ispiratore poco occulto di quella poderosa narrativa ebraico americana che annovera nomi come Singer, Malamud, Saul Bellow, Roth.

Auster spazia a suo estro nelle opere di ogni epoca, incrociando miti, antichi poemi, i film d’antan, Edgar Allan Poe e Hawthorne e tanti autori amati della letteratura americana ed europea. Echi, richiami di ogni sorta attinti alla nostra tradizione culturale. Lo scrittore infila nelle sue storie eleganti citazioni, riassegnando persino nomi fatidici ai personaggi e addirittura alle strade. Nel suo ultimo romanzo, apertamente autobiografico, la via in cui abita il protagonista, a Princeton, si chiama Poe Street; la donna che Baumgartner ha più amato porta il cognome di Blumm, come la moglie di Leopold Bloom (la pronuncia è identica) nell’Ulisse di Joyce. E non a caso si chiama Molly un’altra signora di cui il protagonista si infatua. Tutto è presente, tout se tient come suol dirsi, in chi pretende di voler raccontare assecondando così la propria intransigente vocazione.

Entrando nelle pagine di Paul Auster accettiamo di mettere piede in quel territorio incerto che è la sostanza stessa della sua poetica, il regno dell’imponderabile collocato tenacemente tra ciò che si può dimostrare e ciò che sfugge alla certezza della ragione. Né sapremo mai quale delle due condizioni sia più attendibile, o meglio ci riguardi più da vicino.

È lo stesso Baumgartner ad avvertirci:

“Se una storia risulta così potente e sbalorditiva da lasciarci a bocca aperta e ci dà la sensazione di aver cambiato o arricchito o approfondito la nostra visione del mondo, è importante che sia vera?”

 


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