Le fotografie di Ritratti di Cinema, di Antonietta De Lillo: un viaggio tra memoria e futuro, tra realtà e arte, un atto d’amore verso il cinema e la vita

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La fotografia ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente. In essa, l’avvenimento non si trasforma mai in altra cosa; è il Particolare assoluto, la Contingenza sovrana, spenta e come ottusa, il Tale, l’Occasione, l’Incontro, il Reale nella sua espressione infaticabile”.
Roland Barthes, La camera chiara (1980)

Ritratti di cinema. Venezia 1981-1982, è la Mostra fotografica di Antonietta De Lillo, realizzata da matechiarofilm e le Giornate degli Autori, in accordo con la Biennale di Venezia e con il sostegno della Film Commission Regione Campania, e istallata fino alla fine della Mostra del Cinema di Venezia (che si concluderà l’11 settembre prossimo) in Sala Laguna e al Palazzo del Cinema. Le fotografie viaggeranno poi, verso la Casa del Cinema di Roma, nei mesi prossimi, e a Napoli; ma sono previste anche istallazioni all’estero per far muovere ritratti di cinema immortali, scattati in quei due anni dalla giovanissima regista di Il Resto di niente (2004).

Da Robert Altman a Wim Wenders, da Hugo Pratt a Harrison Ford, da Angela Molina a Jeanne Moreau, Margarethe von Trotta a Coline Serreau, da Italo Calvino a Goffredo Parise: fotografie che sono atti di amore per persone stra-ordinarie, alle quali la De Lillo ha saputo carpire sguardi sinceri.

“Con questa mostra, ho rubato lo spirito di persone che incarnano il passato – racconta Antonietta De Lillo – che è l’elemento indispensabile per comprendere il presente e migliorare il futuro, intimo e collettivo”.

Ad accompagnare la mostra è stato anche realizzato un volume pubblicato dalla casa editrice napoletana Dante & Descartes con il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Che mostra è Ritratti di Cinema?

Questa mostra nasce dal mio desiderio di non disperdere la memoria, grazie anche a marechiarofilm, la società da me fondata ormai più di dieci anni fa, proprio con l’intento di guardare il futuro senza dimenticarci del nostro passato. Ho iniziato a lavorare con le immagini come fotografa, da ragazza, e il mio archivio era rimasto, per così dire, disperso. Dopo anni ho cercato di recuperarlo. Molte cose sono andate perdute ma, quando ho visto gli scatti che avevo realizzato a Venezia nel 1981 e 1982 come giovane fotoreporter, ho pensato che sarebbe stato bello farli vedere oggi.

Il motivo per il quale ho inaugurato questa mostra a Venezia, è perché mi sembrava il luogo naturale dove farle iniziare il suo percorso: credevo fosse importante e significativo che si rispecchiassero la Venezia di oggi con quella di quarant’anni fa.

Devo dire che, tranne l’immutato amore per il cinema, sono due festival che si sviluppano in due contesti assai diversi.

Da giovane fotoreporter ho avuto la possibilità di fare incontri a tu per tu con gli artisti che frequentavano la Mostra del Cinema di quegli anni. Da Kurosawa a Bertolucci, da Altman a Ferreri, da Losey a Calvino, da Guttuso a Monicelli: personaggi fondamentali per la crescita culturale, non soltanto cinematografica. Riuscivo, in quegli incontri, a creare una relazione con loro, uno scambio, una reciprocità, scegliendo di volta in volta le ambientazioni dove ritrarli, che rendono questi scatti in bilico tra il fotogiornalismo e il posato: dalla terrazza dell’Excelsior alla spiaggia del Lido.

Riuscivo ad avere “attenzione” da loro e a creare quel rapporto artistico che la fotografia richiede: una certa “intimità” tra il fotografo e il soggetto fotografato.

Queste fotografie, ora, sarebbero impossibili da fare, con la stessa leggerezza e con lo stesso rigore. Oggi i fotografi incontrano gli artisti soltanto sul red carpet, o in momenti prefissati per le photocall, dove un plotone di fotografi scatta a ripetizione, con il soggetto che per pochi minuti si mette a disposizione davanti a pannelli targati, di volta in volta, dagli sponsor delle diverse manifestazioni: non c’è più alcuna ambientazione fotografica, esistono solo loghi e scritte che fanno da sfondo ai vari soggetti. Questo mi ha fatto molto riflettere. Mi piace pensare che questa mostra, Ritratti di Cinema, sia un “dettaglio” all’interno della grande Mostra del Cinema di Venezia 78. Questo “dettaglio”, però, suggerisce che dobbiamo tornare ad avere rapporti umani, personali, lenti, pensati tra di noi. E non credo che la pandemia sia la causa di questo raffreddamento, ma che le radici di tutto questo siano antecedenti al Covid19.

Quest’anno la selezione dei film è di altissima qualità e si conferma l’impegno, anche da parte dei cineasti, di reagire, di ripartire, come è successo in altri settori, a cominciare dallo sport. Ma, fuori dalle sale, ho avuto una sensazione piuttosto sgradevole. È un festival dispersivo, dove tutto è diviso in settori: le zone dei vip, le zone dei fotografi, le zone del pubblico, le zone dei pass… Siamo diventati tutti delle funzioni, degli algoritmi, dei numeri. Venezia, insomma, non è più quell’ “agorà culturale” nella quale era possibile incontrare, dialogare, conoscere.

Tutto questo mi dà l’idea che la nostra società, per come l’abbiamo organizzata in generale, sia profondamente “orwelliana”: Venezia ne è lo specchio, a mio parere, e questa società divisa gironi danteschi, che si spostano tra un “non-luogo” e l’altro (come direbbe Marc Augé), che si aggira tra posti completamente privi di identità e specificità, è triste. Perciò, ho avuto la sensazione che i personaggi che ho fotografato quarant’anni fa ci guadassero e che la loro presenza ci suggerisse una direzione per il futuro.

L’idea che la mostra sia in bilico tra cronaca e ritratto è molto interessante, perché spiega la doppia valenza (che è poi il suo fascino) della fotografia: arte e realtà, attraverso l’immagine fissata in un momento specifico che, quando è arte davvero, diventa un momento definitivo. Vedendo le fotografie della tua mostra, mi sembra evidente una cosa: la reciprocità di sguardi di cui parli tra te e i soggetti ripresi indica il tuo amore profondo verso di loro. La corrispondenza con chi guardi è evidente, commovente. Qual è, quindi, il sentimento che speri possa avere il fruitore della mostra, oggi, in questo 2021 in cui, ahimè, molti dei tuoi protagonisti sono morti (portandosi via un pezzo profondo della cultura)?

La nostra memoria, ripeto, è essenziale: senza memoria non siamo nulla. Queste fotografie sono la memoria di un cinema che amo, ho amato e ci accompagna. D’altra parte, questi ritratti si rispecchiano col presente e ne tracciano, come abbiamo detto poc’anzi, la differenza. Questo termine di paragone è utile a capire che questo presente non è l’unico dei mondi possibili.

Questa mostra, quindi, mi ha dato la possibilità di riscoprire l’importanza della memoria. Memoria che non è personale, soggettiva, intima, ma è una memoria oggettiva, che negli scatti di questa mostra trova i propri testimoni. La creatività ha questo potere: riuscire a fare qualcosa che vive di vita autonoma. La mia personale esperienza di Venezia, se non ci fossero le foto, sarebbe rimasta un ricordo personale. Non avrei mai immaginato che quegli scatti, un giorno, sarebbero stati esposti proprio alla Mostra del Cinema e in queste immagini, inevitabilmente, ho mostrato anche una parte di me.

Questa mostra mette anche in evidenza la mia curiosità nei confronti degli altri. Primo Levi, per esempio, nel momento in cui l’ho fotografato, mi comunicava chiaramente la propria disperazione, la propria fragilità. Marco Ferreri, al contrario, ostentava quasi la stessa curiosità che avevo io, era come se mi stesse dicendo che non temeva la mia gioventù e credo che questo senso di sfida sia evidente negli scatti. Goffredo Parise, invece, così schivo e riservato, rende immediatamente visibile la sua natura intensa, silenziosa, meditativa. Ognuno dei soggetti in mostra ha una sua espressione, un atteggiamento, un volto, che ho cercato e, forse, trovato, solamente grazie alla curiosità, la cosa più importante e vitale, quella che vorrei comunicare a tutti coloro che vedranno questa mostra. Più ancora del cinema, la fotografia ruba l’anima e lo spirito delle persone. Io lo facevo con due macchine fotografiche appese al collo, una a colori e l’altra in bianco e nero, con un teleobiettivo 105 mm, un 35 mm. e un 24 mm., che usavo in alternanza; e parlavo, mentre scattavo, sperando che il dialogo potesse partorire una mimica, delle espressioni che catturassero definitivamente un parte di loro.

Per quali giornali lavoravi, in quei due anni?

Ero una giovanissima inviata di diversi giornali napoletani, talmente giovane che quando arrivavo in redazione, per intenderci, mi dicevano: “È arrivato il Corriere dei Piccoli. Da freelance scattavo foto che davamo poi anche a L’Espresso, Panorama… Erano anni nei quali quei mestieri esistevano, si facevano, si amavano. Per me, lo dico spesso, la macchina fotografia è stata lo strumento che mi ha salvato la vita, l’anticamera del cinema. Prima della fotografia non avevo nessuna proiezione di me adulta, invece, da quando ho preso la macchina fotografica, ho inziato a viaggiare, per la mia città, Napoli, e poi per il mondo.

Indubbiamente, la distinzione in caste, il mondo orwelliano, i gironi danteschi che separano ormai le persone, al li là del virus, come detto sin qui, sono dati di fatto incontrovertibili. La cultura, invece di camminare tra le persone, cammina in branchi separati. Ma è anche vero che i festival del cinema, e Venezia in particolare, sono pieni di ragazzi, di giovani cinefili che amano e conoscono il cinema, con sincerità e allegria. Hai idea di come, i giovani che hanno visto la tua mostra a Venezia, abbiano reagito, una volta visti quei ritratti, tutti insieme?

Durante il festival ho incontrato tanti giovani e anche miei allievi – perché quest’anno ho insegnato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo, all’Università Roma Tre e alla Gian Maria Volonté – e posso confermare l’entusiasmo enorme dei ragazzi verso il cinema, che vadano o meno a Venezia.

In un contesto in cui si vive di prenotazioni frenetiche e distratte per i film, dove ci si accaparra posti in Paradiso o in Purgatorio, in sale di serie A e di serie B, per film di serie A o di serie B, in questo contesto orwelliano e caotico, chi ha potuto e voluto vedere la mostra, so che ne è rimasto colpito. Qualche giorno fa, ad esempio, sono stata raggiunta da un messaggio di un un giovane studente di cinema, che mi ha scritto: “Signora, sono appena uscito dalla sala Laguna, ho visto le foto, veramente bellissime! Molto intime, a vedere il festival oggi sembra un altro mondo purtroppo…”.

Il fatto che questo “dettaglio” della mostra sia stato notato dai giovani non solo mi fa particolarmente piacere ma mi commuove e mi fa riflettere sul mondo che stiamo consegnando alle nuove generazioni, perché denuncia una nostalgia di qualcosa che non hanno mai avuto. Penso che questi ragazzi sono intelligenti, preparati, pieni di energie, entusiasmo e passione, al contrario di come vengono spesso descritti da noi adulti.


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