La mattanza di Santa Maria Capua Vetere e gli anticorpi. Intervista a Daniela De Robert

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Lunedì i carabinieri di Caserta hanno eseguito 52 misure cautelari nei confronti di agenti della polizia penitenziaria, accusati di violenze nei confronti dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, avvenute tutte la sera del 6 aprile 2020. I provvedimenti sono stati emessi dal giudice per le indagini preliminari su richiesta della Procura della Repubblica, in seguito a un’indagine avviata dopo le denunce di alcuni detenuti. Tra le persone coinvolte dai provvedimenti ci sono Gaetano Manganelli, ex comandante del carcere, e Pasquale Colucci, comandante del nucleo traduzioni e piantonamenti, e Antonio Fullone, provveditore delle carceri della Campania, per il quale è stata disposta l’interdizione dalle proprie funzioni. In altri termini una delle storie più buie della Repubblica, capace di oscurare i molti passa avanti fatti in questi anni a tutela delle persone private della libertà e, al tempo stesso, in grado di riportarci indietro di venti anni, alle violenze del G8 di Genova. Eppure Daniela De Robert componente del Collegio del Garante Nazionale dei detenuti è la prima a rinnovare fiducia nel nostro sistema democratico e di controllo “che ha consentito di intervenire subito e di individuare i responsabili, senza fare sconti”.
Su quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere la De Robert ha le idee molto chiare: “Non ci sto a criminalizzare tutto e tutti del nostro sistema carcerario, sarebbe un grave errore. Ci sono due concetti importanti che ruotano attorno a questa vicenda”.
Quali sono?
“La magistratura si è mossa subito, la sera stessa sono stati sentiti i detenuti, è andata a fare i colloqui. Il Garante nazionale infatti non si è mosso, non ha detto nulla perché sapevamo che si stava già operando. Credo che la tempistica sia importante in questa storia perché restituisce il segno della reazione, degli anticorpi che si sono messi in moto”.
Non si può comunque negare che sia intercorso molto tempo dalla data dei fatti all’applicazione delle misure cautelari. I tempi della giustizia italiana molto lunghi…

“In effetti 14 mesi sono tanti e anche il fatto che i poliziotti indagati siano rimasti nello stesso posto quindi con la possibilità di inquinare le prove è un elemento negativo, sì”

Lei ha parlato di due elementi importanti nel caso specifico, qual è il secondo?

“Riguarda l’aspetto mediatico, mi riferisco al fatto che accanto alla notizia ci sono state paginate di foto dei 52 indagati, ecco questo non lo trovo adeguato, non necessario. Cosa aggiunge? Nessuna ingerenza sul modo di raccontare una vicenda gravissima, i pestaggi contestati sono un vulnus alla nostra democrazia, tuttavia quel modo di informazione può mettere a rischio di ritorsione le tantissime altre persone che lavorano nelle carceri italiane. Ciò che voglio dire è che non va cavalcato il filone dell’odio”.

Siamo nel 2021, i fatti sono del 2020, come è possibile che sia accaduta in Italia, in Occidente, in Europa una vicenda così sudamericana?
“Le immagini video mostrano le cose come sono andate e non doveva accadere nel 2020. La chiusura per il covid purtroppo non ha aiutato i controlli, noi lo abbiamo detto dal primo momento. C’è molto da lavorare sul fronte della formazione. L’Autorità del Garante per i detenuti ha firmato molti protocolli con tante carceri e Procure italiane proprio per quanto concerne la formazione che resta la chiave di volta. Ci sono dei ‘focolai’ nella nostra democrazia però ribadisco che non bisogna né generalizzare né soffiare sul fuoco dell’odio perché questo sarebbe un ulteriore grave errore. La tentazione di molti adesso è quella di demonizzare la polizia penitenziaria e questo non va bene, non sarebbe preciso né giusto, nè tantomeno risolutivo”.


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