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Contro ogni sviluppo sostenibile

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Sì, aderisco convintamente a quel filone di pensiero, minoritario ma non inconsistente né insignificante, che è fermamente, fortemente, assolutamente contrario allo “sviluppo sostenibile”. Sviluppo sostenibile è un ossimoro, è un concetto intrinsecamente contraddittorio che non trova riscontro in natura: o c’è sviluppo o c’è sostenibilità, tutte e due insieme non possono darsi.

Perché? La spiegazione è semplice:per esserci  sviluppo  nel significato che da sempre si è dato a questo termine parlando di economia è indispensabile che ci sia crescita. Ma oggi  l’ambiente non  è più in grado di sostenere altra crescita, poiché  è stato già abbondantemente  dissestato dalla crescita avvenuta negli anni passati. Gli equilibri ambientali ne sono stati  manomessi e  ciò ha prodotto effetti catastrofici ormai visibili da chiunque abbia occhi  e non li chiuda.

Ciò nonostante e  malgrado che sia comprensibile da chiunque che una “crescita” all’infinito non può darsi all’interno di un sistema finito qual è il  pianeta Terra, c’è chi si domanda come si faccia ad affermare che gli equilibri ambientali siano stati alterati dal nostro modo di produrre e consumare, C’è addirittura  chi si  chiede se la lotta al Covid19 non alteri anch’essa gli equilibri ambientali, dal momento che la pandemia, se non la si combattesse, ridurrebbe il numero degli abitanti che pesa sul pianeta e questo potrebbe ripristinare gli equilibri alterati.

Lascio ad altri di rispondere al secondo interrogativi  non avendo competenza per farlo ed anche perché il quesito mi sconcerta.

Quanto al primo   la risposta è facile.

Da alcuni decenni l’umanità, o, per essere precisi, la parte opulenta  dell’umanità, consuma sistematicamente ogni anno più risorse  di quante annualmente la Terra ne produce. E’ come se ad un  redditiero  che vivesse  degli interessi prodotti da   un cospicuo capitale investito, dopo un po’ di tempo non bastasse più  per coprire le spese di tutti i 12  mesi il gettito di  interessi prodotti annualmente, ma ci vivesse     solo per 11 mesi, e poi solo per 10, e quindi solo per 9 e così via. E quindi ogni volta, dopo aver consumato tutti gli interessi, per arrivare a fine d’anno avesse dato mano al capitale. Il quale, riducendosi,   avrebbe prodotto sempre meno interessi  determinando la necessità di prelievi di capitale  sempre maggiori. Si determinerebbe così   un circolo vizioso che inevitabilmente avrebbe, prima o poi, mandato in dissesto lo sventato redditiero.

Con l’ambiente è andata proprio così: non bastandoci le risorse prodotte dalla natura annualmente, abbiamo intaccato il patrimonio ambientale sino a provocarne il dissesto. I cambiamenti climatici, i fenomeni di desertificazione e le stesse pandemie dimostrano che non si può andare più avanti  così, cioè che non si può continuare a crescere a meno di non rendere impossibile che sulla Terra continui ad esserci vita  come l’abbiamo conosciuta.

Dunque, dal momento che senza crescita, come si è detto prima,  non ci può più essere sviluppo, aggiungere a questo termine l’aggettivo sostenibile è semplicemente un inganno.

Sono anni che alcuni lo vanno spiegando

Ma allora perché si continua a parlare di sviluppo   sostenibile, perché   il massimo che si riesce a dire è che occorrerebbe un nuovo modello di sviluppo? Perché si è tanto affezionati a questa parola?

Per due ragioni.

Perché per trent’anni  il “pensiero unico”, che è servito a sostenere  la globalizzazione basata appunto sulla crescita,ha persuaso quasi tutti che il benessere sia indispensabilmente legato alla crescita, che più si consuma meglio si sta e che senza crescita c’è il baratro della povertà. Per  farci essere sempre più felici  si è inventato  di tutto,dalla follia dell’ “usa e getta” alla truffa dell’ ”obsolescenza programmata”, dal provocare artificiosamente nuovi bisogni  ad una inverosimile accelerazione  del tasso di innovazione dei prodotti  tanto che non si fa in tempo ad acquistare qualcosa che quel modello  risulta già   superato. Il che ha consolidato l’idea che per stare bene, cioè consumare,sia indispensabile la crescita.   

La seconda ragione è legata alla prima; sta nel timore   che dicendo  chiaro e tondo che l’era della crescita è finita  si creerebbe sgomento e si getterebbero nel panico in  primo luogo i poveri, i quali sarebbero portati a pensare che se sono  tanto malmessi  ora in tempo di crescita, figurarsi  se non ci fosse..

E’ necessario    svelare  l’inganno, rendere palese che la  crescita  ha prodotto diseguaglianze  e, lungi dall’agevolarle, ha danneggiato fortemente le classi che una volta si chiamavano subalterne, ha prodotto “nuove” povertà che si sono andate ad aggiungere alle vecchie perché  capita che nemmeno lavorando ci si riscatti dalla povertà.

Per tentare di mostrare come stanno le cose  bisogna andare   indietro nel tempo e ricordare  che diversi decenni fa si cominciò a parlare di società  “affluente” e poi di società “opulenta” e infine  di società “dei consumi” . Bisogna  ricordare   che  più o meno contemporaneamente  si sostenne  che si dovessero eliminare i troppi “lacci e laccioli”che  imbrigliavano la libertà delle imprese, quindi che ci dovesse essere “meno Stato e più mercato”, per giunger all’attuale  restringimento del campo d’azione dello Stato ed all’ampliamento dell’influenza del mercato che  ha assunto in sua vece  la  funzione di  massimo regolatore delle relazioni sociali.

Bisogna inoltre ricordare  che  nello stesso arco temporale  si è verificata una fortissima concentrazione della ricchezza a livello planetario,  passando    da un 30%  della popolazione mondiale che  possedeva il  70%  della ricchezza  ad un  20% che ne possedeva l’80%    per giungere alla situazione odierna  in cui  l’1 per mille della popolazione   si è appropriato del 50%  di tutta la ricchezza  del mondo, con una spartizione dell’altro 50% anch’esso  in quote enormemente diseguali tra il  “restante” 999 per mille degli esseri umani.

Soprattutto bisogna far capire – cosa non facile per i non addetti ai lavori – come e perché fra questi fenomeni non vi sia stata una semplice  correlazione temporale ma una stretta connessione causale e che sia a livello planetario, cioè tra i diversi paesi, sia a livello di ogni singola società, cioè tra le varie classi  di uno stesso paese, povertà,   diseguaglianze e  ingiustizie  derivano dal sistema economico basato sulla crescita, da cui ha origine anche  il dissesto ambientale. Ovvero, detto in altri termini, che squilibri sociali e squilibri ambientali sono causati da un’unica causa: il modello occidentale di produrre e consumare che è esportato  anche in altri paesi.

Bisogna infine rendere palese  che tutto ciò non è avvenuto per  caso, ma  come risposta al leggero riequilibrio dei rapporti di forza tra Capitale e Lavoro in  favore del Lavoro,  verificatosi quando  nella fase matura del Fordismo   si sfiorò la piena occupazione. Che ciò che è avvenuto è il frutto di scelte   volute e ben ponderate, concertate nella Trilateral (qualcun@ si ricorda ancora di questo organismo sovranazionale  nel quale sedeva anche l’avvocato Gianni Agnelli?) che sono andate  dall’ instaurazione di uno stretto rapporto, quasi un’alleanza strategica, del Capitale a livello mondiale con  la Scienza,  al cambio   di passo  del processo di accumulazione passato  dalla logica  inclusiva di territori e fasce sociali dell’epoca fordista    ad una logica selettiva ed escludente territori e fasce sociali non in grado di accogliere l’accelerato turnover di prodotti. Scelte cui si ispirò la  svolta che Thatcher e Regan impressero alle politiche non solo dei propri Paesi ma di tutto l’Occidente.

SI è avuta così una profonda mutazione del Capitalismo cioè alla fase della globalizzazione la cui ragione  è stata efficacemente sintetizzata da tale Warren Buffet, accreditato sino a poco tempo fa  della terza posizione  nella graduatoria delle persone più ricche del mondo, il quale  ha apertamente dichiarato che <È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo>.

Un rimedio però dovrà pur esserci. Pur non facendosi illusioni e  prendendo atto che, come intitolò Giorgio Ruffolo un suo libro pubblicato nel 2008, il “Capitalismo ha i secoli contati“ non è detto che non possa esservi  una via di uscita da questa sconfitta e che non si possa dar mano ad un’altra economia,  ad una “economia socialmente ed ambientalmente sostenibile”.

Condizioni pregiudiziali anche se non sufficienti, sono lo smontare il convincimento che il benessere sia indissolubilmente legato a crescita e sviluppo e  chiamare le cose con il loro nome, senza edulcorazioni.

Per questo sono   fortemente, pervicacemente convinto che parlare di  sviluppo sostenibile, pur se con le migliori intenzioni di questo mondo, sia profondamente  sbagliato.


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