Yitzhak Rabin e il destino di Israele

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Sono trascorsi venticinque anni da quando Ygol Amir, un colono estremista, assassinò Yitzhak Rabin, senz’altro il più progressista dei presidenti israeliani dell’ultimo trentennio.

Di Rabin, della sua avventura, della sua carriera militare e della sua straordinaria passione politica ce ne siamo occupati già altre volte, come ci siamo occupati degli Accordi di Oslo insieme ad Arafat e dell’ultima volta che, concretamente, abbiamo avuto la speranza che il Medio Oriente potesse incamminarsi verso un cammino di pace. L’aspetto su cui è opportuno soffermarsi in questo anniversario, pertanto, è ciò che ne è stato di Israele dopo la sua morte. Nell’anno in cui abbiamo assistito allo scempio degli Accordi di Abramo che, sostanzialmente, tagliano la Palestina fuori da ogni discorso sulla pace e sul futuro della regione, siamo costretti a prendere atto che l’omicidio di Rabin non è stato casuale. Per quanto siamo certi che la mano assassina di Amir si sia armata da sola, è  altresì doveroso ricordare il clima di dileggio e quasi d’odio che circondava Rabin in quegli anni. Il presidente labourista era travolto dalla ferocia di quanti non volevano concedere ai palestinesi alcun diritto, di quanti pensavano di poter occupare l’intero territorio e reprimere il dissenso, la rabbia e la disperazione di un intero popolo con le armi, di quanti, negli anni successivi, hanno appoggiato la protervia di Netanyahu e la sua azione disumana di occupazione sistematica di ogni centimetro di terra, fino all’abisso trumpiano dello spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv alla città sacra di Gerusalemme.

Ora che, forse, ci siamo liberati di Trump, pur non considerando certo Biden un rivoluzionario, l’auspicio è che anche lo scenario mediorientale possa subire qualche mutamento: dalla ripresa di un vero dialogo fra israeliani e palestinesi a un auspicabile cambio di leadership nel Paese che fu di Rabin e che oggi è in mano a un fondamentalismo pericoloso.

Ricordare Rabin, il suo sacrificio, la sua battaglia per i principî in cui credeva e la sua significativa eredità significa, dunque, opporsi a una realtà contemporanea che non possiamo e non dobbiamo più accettare, in quanto è il trionfo della barbarie e un rischio per i già fragili equilibri del pianeta.

Un ricordo fine a se stesso serve a poco. Adesso bisogna agire, generando collettivamente le condizioni affinché il principio dei due popoli – due stati possa diventare realtà. Era il sogno di Rabin e Arafat ed è anche il nostro.


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