Biden, una presidenza che non guardi all’odio ma alla fratellanza

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Essendo stata pubblicata in ottobre, l’enciclica “Fratelli tutti” potrebbe non essere stata letta con la dovuta attenzione da Joe Biden. Ma un’occhiata a cosa dica della sua fede Joe Biden può aiutare a capire la sua presidenza che verrà e che la lettura dell’enciclica potrebbe, ora ce la campagna elettorale è finita, aiutarlo proprio nella definizione della sua agenda. La fede è stata importante nella vita di quest’uomo che ha perso la moglie, due figli e ha rischiato lui stesso di morire. Nell’editoriale per il Religion News Service del dicembre scorso Biden ha scritto: “La mia fede mi insegna che noi dovremmo essere il paese che non solo accetta la verità dei mutamenti climatici, ma che guida il mondo nel rispondere ad essi.” Poi, proprio alla vigilia delle elezioni, ha scritto per The Christian Post: “La mia fede mi implora di avere un’opzione preferenziale per i poveri e come presidente farò di tutto per combattere la povertà e costruire un futuro che ci porti più vicino ai nostri alti ideali- non solo che uomini e donne sono creati uguali agli occhi di Dio, ma che siano trattati allo stesso modo dai loro simili”.

Queste affermazioni recenti di Joe Biden ricordano da vicino quanto scrisse Papa Francesco nel messaggio che inviò a Donald Trump il 20 gennaio di quattro anni fa, quando si insediò alla Casa Bianca. In quel testo si poteva leggere:  “Le sue decisioni siano guidate dai ricchi valori spirituali ed etici che hanno plasmato l’impegno della nazione per l’avanzamento della dignità umana e della libertà in tutto il mondo”. E più avanti: “Sotto la sua guida possa la statura dell’America continuare a misurarsi soprattutto per la sua preoccupazione per i poveri, gli esclusi e i bisognosi che come Lazzaro attendono di fronte alla nostra porta”.

Certo, la luna di miele tra Biden e il mondo che aspetta una presidenza capace di curare le ferite che dividono l’America e che ne hanno fatto un potente propellente di tante altre visioni estreme, appare destinata a fare presto i conti con il problema della costruzione di un nuovo spazio di compromesso, di accordo trasversale. Se non per scelta sarà così per necessità, visti gli equilibri che certamente fino alle prossime suppletive non daranno a Biden la maggioranza al Senato e visto lo squilibrio voluto da Trump nella Corte Suprema.

Biden dovrà trovare il modo di creare questo spazio nuovo, e questa potrebbe essere non solo una necessità ma un’opportunità, cioè non solo una necessità numerica ma anche un’urgenza politica, visto che la principale ferita dell’America e del mondo appare proprio la profondità del solco che divide, con impedisce la comunicazione tra ambienti e culture che sembrano aver perso anche la possibilità di curarsi insieme. Trump sempre senza mascherina e Biden sempre con la mascherina ne sono il simbolo.

L’invasione del campo religioso cristiano da parte di quello è che è stato chiamato con grande efficacia “ecumenismo dell’odio”  da parte di alcuni ambienti evangelici e cattolici vicini alla presidenza Trump sono la riprova di quanto il mondo del pensiero religioso possa fare per consentire a Biden di riuscire in questo tentativo.

Guardando all’enciclica “Fratelli tutti” si può cogliere a collimanza bideniana con la visione di Francesco sul tema ambientale, o dell’ecologia umana integrale come la chiama Francesco. Ma è la prospettiva in cui questa va inserita che indica la sfida: per l’enciclica è chiaro che la cura per l’ambiente comporta una visione che non punta né ad una globalizzazione uniformante, che vuole cancellare le differenze tra popoli e culture, né ad un populismo nazionalista che esalta le divisioni e le contrapposizioni: “L’universale non dev’essere il dominio omogeneo, uniforme e standardizzato di un’unica forma culturale imperante, che alla fine perderà i colori del poliedro e risulterà disgustosa. È la tentazione che emerge dall’antico racconto della torre di Babele: la costruzione di una torre che arrivasse fino al cielo non esprimeva l’unità tra vari popoli capaci di comunicare secondo la propria diversità. Al contrario, era un tentativo fuorviante, nato dall’orgoglio e dall’ambizione umana, di creare un’unità diversa da quella voluta da Dio nel suo progetto provvidenziale per le nazioni”.

Il neo-presidente dunque potrebbe trovare molto nel punto 12 dell’enciclica: “Aprirsi al mondo” è un’espressione che oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli». Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza. Aumentano piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori o di spettatori. L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti. In tal modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il divide et impera”.

Questa visione può essere tenuta come bussola per le sfide dell’oggi, non solo  in politica internazionale. Ma anche in politica internazionale un “nuovo inizio” rispetto al corso trumpiano è possibile  e comporterebbe una scelta che ha un nome preciso: multilateralismo. Si legge al punto 174 di Fratelli tutti: “ Ci vogliono coraggio e generosità per stabilire liberamente determinati obiettivi comuni e assicurare l’adempimento in tutto il mondo di alcune norme essenziali. Perché ciò sia veramente utile, si deve sostenere «l’esigenza di tenere fede agli impegni sottoscritti (pacta sunt servanda)», in modo da evitare «la tentazione di fare appello al diritto della forza piuttosto che alla forza del diritto». Ciò richiede di potenziare «gli strumenti normativi per la soluzione pacifica delle controversie […] in modo da rafforzarne la portata e l’obbligatorietà». Tra tali strumenti normativi vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati, perché garantiscono meglio degli accordi bilaterali la cura di un bene comune realmente universale e la tutela degli Stati più deboli”.

 

Favorire la visione del così detto “Vangelo della prosperità” è stato un impegno culturalmente decisivo della presidenza Trump: questa Vangelo tutto nuovo, mai letto nei quattro più noti, teorizzato in ambienti religiosi americani connessi alla presidenza uscente, ha visto nella povertà quasi una colpa: se sei povero vuol dire che qualcosa con Dio non va. Tornare al Vangelo delle Beatitudini non è certo un lavoro da Presidente degli Stati Uniti d’America, sarà pertanto importantissimo il lavoro del mondo socio-culturale connesso ai democratici e alla nuova Casa Bianca. Una visione incentrata sui diritti individuali, sull’idea di essere “liberi di” ( a cui è facile far seguire tutti i temi divisivi sollevati in questi ultimi anni) invece che sulla necessità di “essere liberi per” (che si può completare facilmente con quel che è stato riferito delle recenti dichiarazioni di Biden) aiuterà certamente a curare le ferite sociali, a pensare una semina diversa, non più basata sui chicchi d’odio, come quella che è  stata compiuta negli anni trascorsi. Sappiamo tutti che le divisioni in America non sono diminuite, è riemersa in tutta la sua gravità anche la questione razziale. Qui è chiaro che un tassello importante per curare, ridurre, superare, lo ha posto la recente scelta da parte di Papa Francesco del primo cardinale afro-americano, l’arcivescovo di Washington. Se il mondo “liberal” e il cattolicesimo democratico americano sapranno incontrarsi nella ricerca di una visione della “libertà per”, non scegliendo agende invecchiate davanti all’evidenza di un nuovo potere consumista, il compito impervio del secondo presidente cattolico della storia americana sarà meno difficile.

L’altra sfida è chiaramente quella cinese. La crisi non è nata dal virus, purtroppo, ma dalla sfiducia che tra Stati Uniti e Cina si è consolidata nel tempo. E’ questa sfiducia che ha impedito di fronteggiare per tempo e insieme la pandemia. Qui Biden ha davanti un compito enorme e difficilissimo nel quale molto non sta a lui, ma a Pechino, ovviamente. Sperare in qualcosa di nuovo è molto difficile, ma anche molto importante, per tutti.

Ma in definitiva è stato l’ex consigliere di Trump, Steve Bannon, a dare il miglior consiglio a Biden. Invocando il taglio delle teste degli “avversari” di Trump gli ha detto in buona sostanza che “l’odio” era il collante del campo avverso, la sua potente “cultura”. La sfida del cattolico Biden è di costruire un collante opposto, quello della fratellanza, non certo un “odio nuovo”.


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