Della crudeltà istrionica: “Il bidone” di Federico Fellini

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C’è stato un tempo, fra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, in cui l’Italia si è trovata sospesa sul confine fra condizione arcaica e trafelata modernità, e nel momento in cui elementi della prima e della seconda si sono malamente combinati è nata quella distorta forma mentale che fa dell’ambizione ignorante e antropofaga a uno status economico tale da permettere di umiliare il prossimo, il motore di ogni azione. Nessuna opera è riuscita a rappresentare questo momento e questa mutazione antropologica come “Il bidone” di Federico Fellini.

Non fanno sorridere né commuovere, a differenza dei “vitelloni” di provincia, i truffatori spregevoli protagonisti del film. Battono la campagna sterposa del Lazio in cerca di vittime, per ritrovarsi poi a dilapidare il denaro nei bar di Roma ancora spartani, fra Negroni e Campari, nei primi night club, con ballerine e prostitute raccolte ovunque, muovendosi in straordinari “notturni”, fra i più amari del cinema italiano, o in smorte atmosfere albeggianti. E’ un’anima persa il fatuo Roberto dai capelli ossigenati, che alterna ai raggiri la carriera di mantenuto di signore agiate di mezz’età e sogna di fare il cantante. E lo è, nonostante la complessità e l’incombente sensazione di aver sprecato l’esistenza, il più maturo Augusto. Carlo, il pittore, viene condotto qua e là dal vento di un pensiero magico che ne disperde sentimenti e rimorsi, rendendogli difficile cogliere il male inflitto agli altri. Lo salverà, forse, l’amore tenace della moglie Iris, una Giulietta Masina spogliata di ogni manierismo, gigantesca nella semplicità espressiva, nella delusione e nello sgomento pacato come nella speranza.

I primi due vivono invece in un eterno presente privo di legami, un’ininterrotta epifania sorda ed egoica, indifferenti di fronte alla prospettiva di uccidere negli altri persino la speranza.

Non seduttivi, bensì sfrontati, volgari, arroganti, violenti e misogini, compiaciuti di sé e dei propri travestimenti. Si accaniscono sulla miseria di contadini e baraccati, depredandoli persino degli stracci e giocando sul desiderio di un destino più umano: una bestia da acquistare per lavorare nei campi, una casa popolare, un po’ di soldi per non sentirsi più crocifissi al bisogno.

Nonostante lo scarso successo del film, considerato un’anomalia nell’ambito della produzione di Fellini e di conseguenza trascurato da pubblico e critica, la sceneggiatura mostra un impianto estremamente raffinato. La trama è solo in apparenza lineare, in realtà viene gestita attraverso una frammentazione interna non lontana dalla costruzione per episodi autonomi presente in tutte le opere del regista. L’uso delle dissolvenze, la sparizione improvvisa di personaggi di primo piano, le cesure temporali, l’ignoto che divora il destino dei singoli, l’indeterminatezza di fondo dei protagonisti, il clima a tratti fantastico, rendono Il bidone un’opera pienamente felliniana.

Fellini racconta l’impostura come disturbo della personalità istrionico e anaffettivo, che preclude l’immedesimazione nella sorte dei disgraziati – considerati inferiori e meritevoli oltre che di inganno anche di derisione poiché poveri e ingenui. Puri e creaturali. Per due volte Augusto incrocia la grazia – quella della figlia e quella della fanciulla poliomielitica confinata su una sedia, figura che prelude alla Paola de La dolce vita, incontrata dall’uomo fuori della casa diruta dei genitori durante l’ultima truffa, più abietta del solito – e per due volte fallisce a causa dell’irresolutezza che lo contraddistingue e degli scherzi del Caso (o della colpa), finendo per morire sul bordo di una strada, ucciso dai nuovi complici, dopo la lunga agonia mostrata dal regista con meticolosità austera, scarnificando ogni movimento fino a raggiungere una poesia tragica che in questo caso lo accosta a Dreyer. Le dita di Augusto che si afferrano al pietrisco calcinato e franoso acquistano il senso di una redenzione impossibile e di una sconfitta esistenziale e morale.

IL BIDONE (1955)

B/N 105’

Regia Federico Fellini

Sceneggiatura Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli

Fotografia Otello Martelli

Scenografie e costumi Dario Cecchi

Trucco Eligio Trani

Montaggio Mario Serandrei, Giuseppe Vari

Produzione Titanus

Personaggi e interpreti:

Augusto Rocca – Broderick Crawford

Carlo, detto Picasso – Richard Basehart

Roberto Tucci – Franco Fabrizi

Iris, moglie di Roberto – Giulietta Masina


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