I mestieri del cinema. Fellini e il montaggio

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Viaggiando nei mestieri del cinema giungiamo al termine delle riprese, quando il film entra nella fase della post-produzione e più propriamente, nel nostro caso, dell’edizione. Editor in inglese indica proprio il montatore, editing table era la moviola, che oggi in pochi ricordano, e i millennials non sanno proprio di cosa si parli. Ma partire dalla moviola è indispensabile per capire in che cosa consiste il montaggio di un film.

Dobbiamo fare un passo indietro, a quando l’elettronica non aveva ancora soppiantato i sistemi analogici e i film si giravano in pellicola.

Un film medio della durata di un’ora e mezzo corrisponde a circa 2500 metri di pellicola. Ma il girato è ovviamente molto di più consistente: tenendo conto dei doppi e gli scarti, si calcola da 4 a 10 volte il metraggio del film finito, cioè da diecimila a ventimila metri. Quando si gira (“motore, ciak, azione!”) il ciak con cui si dà il via alla ripresa, e il cui rumore secco serve per accoppiare la scena con il suono (pellicola ottica e pellicola magnetica), viene ripetuto più volte per ogni scena, a seconda dell’esigenza del regista; la segretaria di edizione segna nel suo bollettino di lavorazione quali sono i ciak, cioè le riprese ritenute buone (con due o tre riserve) dal regista, da inviare alla “stampa”.

Una volta sviluppata e stampata, la pellicola ‘positiva’ viene consegnata al montatore, il quale unisce le scene una all’altra seguendo il numero d’ordine della sceneggiatura e componendo grado a grado il racconto filmato.

In pratica la pellicola perforata (quattro perforazioni a fotogramma), veniva trascinata dai rocchetti dentati della moviola, e svolgendosi da un supporto rotante, detto ‘piatto’, si riavvolgeva su un altro in posizione diametralmente opposta passando davanti a una lampada speciale munita di lente di ingrandimento; la scena in movimento veniva così proiettata su un piccolo schermo di lavoro detto visore.

Fino a tutti gli anni Quaranta del secolo scorso, la pellicola era tagliata con le forbici e per congiungere i due spezzoni si usava l’acetone. Il solvente rendeva i lembi di celluloide (triacetato di cellulosa) morbido come gelatina, e sovrapponendo l’ultimo fotogramma di una scena al primo della scena successiva, si otteneva una incollatura resistente. La giuntura risultava invisibile in proiezione. Ma l’operazione era laboriosa e spesso imprecisa (c’era pur sempre la perdita di un fotogramma), cosicché i registi tendevano a girare sequenze il più possibile continue in modo da ridurre al minimo il numero delle giunture.

All’inizio degli anni Cinquanta, proprio il montatore di Fellini dell’epoca, Leo Catozzo, rivoluzionò la tecnica di montaggio inventando e brevettando la giuntatrice a nastro adesivo, che prese poi il suo nome in tutto il mondo: Pressa Catozzo.

Il montaggio cambiò radicalmente potendo contare su un numero quasi illimitato di giunture che rendevano il linguaggio visivo molto più spedito, agile, ritmico e creativo.

Il cinema si modernizza ma l’assetto non cambia: la pellicola interamente montata, chiamata ‘copia di lavoro’, veniva inviata al laboratorio per il taglio del negativo, che era l’ultimo e definitivo passaggio. Da quel negativo originale che oggi chiameremmo master, venivano stampate tutte le copie positive che servivano alla ‘società di distribuzione’. Le pellicole, protette dentro scatole metalliche da 300 o 600 metri, venivano spedite materialmente dal ‘Distributore’ alle cabine di proiezione delle sale cinematografiche.

Questo sistema resta in uso fino a tutti gli anni Novanta. Con l’avvento del digitale, la pellicola di celluloide (con gelatina fotosensibile a base di nitrato d’argento) viene gradualmente sostituita dal supporto elettronico: una scheda digitale è ora sufficiente per contenere tutto il poderoso materiale filmato.

Il montaggio oggi si pratica con l’AVID o altri apparecchi elettronici analoghi, che rendono ancora più rapida ed estrosa la pratica del montaggio, consentendo giunture millimetriche e altre innumerevoli soluzioni accessorie (truke, effetti speciali ottici di ogni tipo) del tutto perfette, oltre che di applicazione immediata e, diremo così, immateriale.

Il processo di composizione del racconto visivo rimane però sostanzialmente immutato. Il montatore non maneggia più fisicamente la pellicola, ma la sua ‘arte’ non cambia.

Il montaggio è un passaggio molto delicato, e Federico, da poeta qual era, ne ha scritto righe illuminanti nel suo libro “Fare un film”:

«La conclusione delle riprese appare così, come una dispersione, uno smagliarsi. Ma appresso arriva qualcosa che assomiglia a un ricominciare da capo. E’ la fase della moviola. Il rapporto col film diventa privato, personale: devo star solo con lui e il montatore. (…) La moviola è una sala chirurgica, e l’oggetto, il film, ha bisogno di rispetto, si nutre della sua stessa intimità».

Nel mio special “Fellini nel cestino” ritroviamo l’autore riminese che parla davanti a una moviola, in una delle sue rarissime uscite sull’argomento. In esso il regista dialogando con lo scrittore Oreste Del Buono sulle sequenze cadute per molteplici e differenti ragioni, dal final cut (edizione finale) dei suoi film, si sofferma anche sulla geniale trovata della pressa Catozzo e ci intrattiene su quelle fasi attinenti al montaggio che inevitabilmente confinano con la sonorizzazione del film

«Si arriva così alla prima visione personale. “Lui” esce dallo schermo ridotto della moviola – aveva preso connotati dolcemente amichevoli –  e invade lo schermo a formato naturale. Le immagini sono le sue, quelle che ha saputo guadagnarsi e quelle con le quali l’ho inseguito. Attorno a quelle immagini c’è il suono della colonna guida: ci sono gli stracci sonori della vita del set. Grida, imprecazioni, risate o silenzi faticosamente ottenuti. Ma anche la proiezione muta, senza la colonna sonora, è affascinante, con gli attori che muovono le labbra in un silenzio da acquario. E’ sempre il tuo film? Lo riconosci ancora? Ha un volto a mezza strada fra il ricattatorio e il fraterno. Un mezzo cordone ombelicale ci trattiene vicini: spetta a me spezzarlo.»

Per la storia, Fellini ha utilizzato sei montatori durante la sua carriera. I nomi interesseranno forse soltanto agli specialisti, però vale la pena ricordarli. Per i primi due film, Lo sceicco Bianco e I vitelloni, si appoggiò a Rolando Benedetti. Al quale subentrò Leo Catozzo, che restò a fianco del regista da La strada a 8 ½, con la parentesi di Il bidone montato da Mario Serandrei, il padre nobile della categoria. Nel ’63 quando Catozzo si ritirò dalla professione, subentrò alla moviola Ruggero Mastroianni, il fratello di Marcello, che rimase il titolare per più di venti anni, concludendo la collaborazione in Ginger e Fred, quando Fellini per un problema di tempi di consegna, gli affiancò anche Nino Baragli e Ugo De Rossi.  Baragli firmerà il montaggio di Intervista e La voce della Luna. Ugo De Rossi si occupò anche degli spot pubblicitari, i microfilm e autentici capolavori realizzati nel 1992 per la Banca di Roma. L’ultimo set del Maestro.

Il rapporto tra regista e montatore credo sia di natura umana prima che professionale. Comporta un’alchimia delicata tra due persone rinchiuse per settimane nel buio di una saletta di montaggio, gomito a gomito dalla mattina alla sera. Lungo le pareti si allineano gli scaffali carichi di ‘pizze’, cioè le scatole metalliche con dentro la pellicola, e a fianco della moviola c’è un cestone che deborda di scarti fino all’orlo. Attaccati con le mollette ai fili tirati, tutti gli spezzoni che andranno inseriti, in questa o quella sequenza, primi piani o dettagli rimasti fino a quel momento in sospeso ma che si riveleranno indispensabili per correggere o fluidificare i tagli di montaggio.

Lasciamo parlare Fellini:

«Montare è una delle fasi più emozionanti della lavorazione. È davvero eccitante vedere il film che comincia a respirare, è come assistere alla crescita del proprio figlio. Il ritmo non è ancora perfetto, una sequenza non è ancora completa, ma non torno mai a girare. Credo che un bel film debba avere dei difetti. Devono esserci degli errori, come nella vita e come nella gente. Non credo nella bellezza come cosa perfetta, se non forse quella degli angeli. Una bella donna è attraente solo se non è perfetta. La cosa più importante è vedere se il film è vivo. Questo è il momento più importante per chi fa un film: quando il film incomincia a vivere. E non rivedo mai quello che ho fatto: monto tutto il film dall’inizio alla fine, senza interruzione. Poi quando ho finito e vado in sala di proiezione a vederlo per la prima volta, mi piace essere solo.»

 

Per quanto il regista, assistito dal suo operatore alla macchina e dalla segretaria di edizione, si sforzi di osservare le regole grammaticali durante le riprese, per evitare ‘salti di campo’ ed altre trappole analoghe, qualcosa manca sempre nei cosiddetti ‘raccordi’. A cui deve poi rimediare il montatore, escogitando acrobazie familiarmente chiamate “magheggi”, cioè trovate non visibili a occhio profano. Fellini ne era un esperto perché, per quanto professionista attentissimo, era insofferente delle regole, alle quali anteponeva il risultato emotivo, e spesso procedeva di testa sua infischiandosene della grammatica. Come tutti i grandi artisti, del resto. Il risultato poetico era assai più importante di ogni belluria formale o peggio pedanteria scolastica; pertanto doveva avere accanto a sé un montatore complice, che lo assecondasse in ogni arabesco senza chiedersi il perché ma studiando la maniera di accontentarlo. Ruggero Mastroianni era senza dubbio un buon compagno: romano, di poche parole, apparentemente indolente, accomodante, pronto a ogni eresia, poco lamentoso, poco ansioso, alieno dai toni drammatici e stucchevoli di chi crede di essere abitato dal sacro fuoco dell’arte. Il tipo di artigiano amato da Federico. A parte le troppe sigarette, a cui Ruggero non riusciva a rinunciare. In sostanza il clima dentro la moviola, raccolto e mai approssimativo, godeva di una certa rilassatezza, che le assistenti al montaggio contribuivano ad assecondare.

Nello special “Fellini nel cestino”, la parte interpretata da Nicoletta Della Corte, alludeva appunto a questa nota gentile e garrula che la creatura femminile porta quasi sempre con sé, come una luce di gioco e di sdrammatizzazione.

I montatori sono delle ‘spugne’, assorbono umori e tensioni che non mancano di aleggiare in sala montaggio (come del resto in ogni settore della lavorazione di un film). L’ansia cresce nella fase finale quando la storia, come in una specie di metamorfosi, passa dallo stato di magma informe al vero sembiante, al volto che avrà. E basta un nulla, un minimo errore, una non voluta distrazione, a cambiare il ritmo di una sequenza, a toglierle o aumentarle il fascino, a renderla claudicante, compromettendo il levigato snodarsi della storia. Il montaggio deve scivolare in modo che le mille e mille tessere del mosaico che compongono l’affresco mobile non siano sfuggano agli occhi dello spettatore seduto al buio davanti allo schermo della sala cinematografica. Il montaggio non si deve avvertire, e il montatore deve possedere la perizia e la delicatezza dell’ostetrica nel tirare fuori dal grembo la creatura tutta intera, sorridente e pronta per essere amata da chi la guarda.

Il montatore e le assistenti al montaggio in altri tempi indossavano guantini di filo bianco per maneggiare la pellicola, evitando di lasciare orme sui fotogrammi, per non contaminare, scusate la parolona esagerata, la purezza della visione. Il camice accresceva davvero la suggestione di una astanteria, o come dice esplicitamente Fellini, di una sala chirurgica.  Dove anche si ride e si scherza, perché no, è pur sempre a una nascita che si assiste!


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