Racconto di Pasqua. Lettera a Federico Fellini in occasione del centenario

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Caro Federico,
ero un ragazzo quando ti ho conosciuto, uno studentello in cravatta che stava laureandosi sul più leggendario dei registi, ed ora ho esattamente l’età che avevi tu l’anno in cui te ne sei andato.
Avrei dovuto capirlo, dirigendomi all’Hotel Plaza, l’albergo di lusso in cui mi avevi dato appuntamento, quasi di fronte alla Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, che stavo per mettere piede in una trama del destino. Avrei dovuto indovinarlo da quella impercettibile increspatura dell’aria che annuncia i prodigi, ma forse allora i miei occhi non erano ancora allenati.
Entrando nell’elegante bussola girevole di vetri molati, ero stato depositato nella lobby sfarzosa di tappeti, lampadari di cristallo, specchiere, vasi di alabastro, trionfi di fiori; a fianco del bancone nero e lucido della reception, al termine del mancorrente in marmo dell’ampia scala che scendeva dai piani, mi si parò davanti un gigantesco leone dall’aria regale, in tutto identico a quello ben visibile nella sequenza di 8 ½ in cui il produttore giunge all’Hotel delle Terme recandogli in dono un prezioso orologio d’oro al regista geniale in crisi di ispirazione.
Il film più strabiliante che avessi mai visto al cinema e di cui tu eri l’autore.
Se fossi stato più attento ai segni, nulla mi avrebbe stupito in seguito di come si svolsero i fatti, perché senza poterlo prevedere avevo scavalcato il confine invisibile tra la vita e lo schermo.

Quanti lustri Federico sono trascorsi in quella luce! E in quel lasso di tempo, grazie a un soffio di magia, mi sono trovato a firmare una sceneggiatura con te: il mio nome è scivolato dai credits di Intervista in tutti i libri dedicati alla Settima Arte. Come avrei potuto minimamente vagheggiarlo in quel lontano 1969, una data del secolo scorso!
Dopo la tesi discussa all’Università di Bologna, “Il Satyricon nell’opera di Federico Fellini”, di cui ti eri mostrato all’inizio incuriosito e, in seguito alla lettura, prodigo di lodi, avevi di buon grado assecondato la prospettiva che ti seguissi nel tuo lavoro, senza che fosse chiaro a nessuno dei due in quale ruolo.
Stavi iniziando la preparazione del film “ROMA” in cui era prevista una sequenza sulle case di tolleranza, l’unico luogo ai tempi della tua giovinezza in cui fosse consentito l’approccio con l’altro sesso, fuori dal matrimonio; così ti venne l’estro di coinvolgermi, forse per mettermi alla prova, forse per ‘sciogliere’ la mia rigidità di ragazzo un po’ troppo perbene. Da vero maieuta mi incaricasti di svolgere un’inchiesta su come veniva vissuto il sesso tra i miei coetanei nel bel mezzo della contestazione studentesca. Raccolsi materiale dal vivo, lo inquadrai in un resoconto articolato, e te lo consegnai senza sfigurare. Venni anche regolarmente pagato dal produttore Elio Scardamaglia (non mi sembrava vero!) e fui invitato a seguire la lavorazione del film.
Il mio contributo intanto era confluito nella sceneggiatura, ancora in corso, di Bernardino Zapponi, e servì per impostare le sequenze del Fontanone dell’Acqua Paola sul Gianicolo, di Piazza di Spagna e di Villa Borghese.
Fu per me il battesimo del fuoco, dal quale però fortunatamente non riportai bruciature; tutto si svolse con molta naturalezza, i rapporti con te si venarono man mano d’amicizia, e continuai a starti accanto, senza accorgermi che il tempo volava. Anche perché a Cinecittà, nel regno delle favole, il dio Crono, incantato, depone il potere arrestando il volgere delle sfere.
Intanto, senza quasi mai apparire, scrivevo per te ogni volta che me lo chiedevi, con crescente felicità; mi sembrava di essere stato rapito nelle dimore del Parnaso. Mettermi alla macchina da scrivere, nel tuo studio di via Sistina, o di Corso d’Italia, o nel soggiorno di via Margutta, a riempire fogli di extrastrong con le idee che ti passavano per la testa, soggetti, storie, caratterizzazioni di personaggi, dialoghi, ricordi, fantasmagorie, era il più autentico privilegio e divertimento che potesse capitarmi. Eri un umorista nato, un imitatore esilarante, un allegro mascalzone, un genio con la freschezza di un adolescente, e stare insieme era una festa incessante, un’eterna occasione di allegria e di apprendimento. Essendo tu di un’intelligenza superiore, mi saziavo alla fonte e imparavo senza sforzo a osservare il mondo, la vita, attraverso il tuo sguardo, che non avrei mai più ritrovato in nessun altro; il tuo punto di vista era invariabilmente spiazzante, inaspettato, rivelatorio; il lessico che usavi una cascata di gemme scintillanti, un’invenzione a raffica, da lasciare stupefatti, ammaliati; le tue ‘istruzioni’, mai dottrinali, sul cinema, sull’espressione, sull’arte, erano l’alimento leggendario degli dei, nettare e ambrosia.
Come avrei potuto staccarmi da un creatore tanto inimitabile e fuori misura!? Non lo volevo, a nessun costo, e pur procedendo parallelamente in cerca di una mia strada in ogni campo dello spettacolo, il lavoro con te veniva sempre prima di ogni altro: trascorrere il tempo al tuo fianco, era un dono del Signore.

Come tua abitudine non indicevi mai riunioni di sceneggiatura, chiacchieravi a ruota libera preferibilmente in auto, mentre si andava verso il mare, a Ostia, poi assegnavi i compiti e radunavi il materiale sparso, anzi lo inghiottivi. Scrivevi tu stesso alla tua Olivetti 32, poi tagliavi, incollavi con la coccoina, ricomponevi le pagine con lo scotch, e infine mandavi il brogliaccio in copisteria.
Abbiamo elaborato così, libri, articoli, soggetti, interventi di ogni tipo, persino le interviste, che venivano ogni volta smontate, rivoltate e riscritte di sana pianta.
Poi un giorno, eravamo nel 1986 e io ero cresciuto, non avevo più vent’anni come quando ti avevo incontrato, mi invitasti a scrivere qualcosa a mio gusto su Cinecittà: avevi intenzione di realizzare un film sugli stabilimenti di via Tuscolana, che erano la tua seconda casa. Misi insieme un lungo racconto, una specie di trattamento, e da lì partimmo per la sceneggiatura del film che in un primo momento doveva chiamarsi “Un regista a Cinecittà” e poi si intitolò semplicemente “Intervista”. La tua penultima fatica, che conquistò il Premio Speciale della Giuria a Cannes e il Primo Premio al Festival di Mosca.
Lo schema era quello da te ben altre volte sperimentato, del film nel film, una formula in questo caso elevata alla terza potenza, una meravigliosa “mise en abyme” in cui raccontavi in veste di commentatore, esibendoti in un triplo salto mortale, il tuo rapporto funambolico con la materia del racconto, tra memoria e stato presente.
Questa volta, senza che io ti avessi mai chiesto nulla, decidesti da solo: “Firmerai la sceneggiatura con me”. Avevi lasciato cadere la frase facendo finta di niente, passandomi delicatamente la mano sui capelli mentre ero proteso a sussurrarti qualcosa, e già ti alzavi dalla sedia di regista per impartire ordini di scena approfittando di una pausa delle riprese.
Fu la mia ‘investitura’: la sensazione della carezza è ancora viva, al pari del tocco della spada, di piatto, con cui il re in cappa e corona nomina un cavaliere. Ero entrato a far parte della “table ronde”: tu eri insieme il Re Artù e Merlino.

Dopo “Intervista” abbiamo imbastito altri progetti sulla medesima struttura narrativa; avevi intenzione di dedicarti a un certo numero di film ‘in diretta’ sul lavoro cinematografico: nel primo avresti parlato del rapporto con gli attori, dedicando i successivi alla figura del produttore, all’opera lirica, alla città di Venezia e poi a Napoli. E avresti persino svelato la ragione per cui ti ostinavi a rifiutare le lucrose offerte che arrivavano insistentemente dagli Studios hollywoodiani per trasferire sullo schermo l’Inferno di Dante.
Le tue erano davvero storie meravigliose, rimaste malauguratamente solo abbozzate negli appunti riposti dentro un cassetto.
A “La Voce della luna” non sarebbero seguiti, purtroppo, altri capolavori. Ma l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences fece in tempo ad assegnarti il quinto Premio Oscar, l’Honorary Award, con cui il Gotha del cinema mondiale si inchinava al tuo magistero e alla tua figura di monarca della Settima Arte.

Negli anni successivi alla tua scomparsa ho pubblicato ancora libri su di te, l’ultimo, appena uscito, si intitola GLOSSARIO FELLINIANO in cui ho cercato di raccogliere il tuo pensiero, la tua vita, la tua arte, e tutto ciò che ho appreso da te in quei molti anni fortunati in cui la sorte mi ha concesso di starti vicino.
Dovunque mi chiamino vado a parlare del tuo cinema con gioia immutabile, ogni volta ritrovando l’emozione di compiere insieme al pubblico l’immersione mentale capace di rendere più evidenti i segreti della tua creatività, attingere a quel filone d’oro che ci hai lasciato in consegna per saper affrontare meglio la vita.
Presto o tardi giunge inevitabile la domanda di qualche spettatore: “Che cosa ha appreso da Fellini?”
“Vorrà dire che cosa non ho appreso!” Mi verrebbe spontaneo ribattere, dal momento che ora, in vecchiaia, non riesco neppure a immaginare quale sarebbe stata la mia vita senza quell’incontro all’Hotel Plaza. Tutti noi fantastichiamo su le ‘sliding doors’; a me capita piuttosto di pensare a un invisibile ‘scambista’: ricordate quei ferrovieri che una volta, all’uscita delle stazioni, tiravano a mano la lunga leva con cui avviare il treno sull’uno o sull’altro binario? Ecco, credo che ognuno di noi incontri il proprio scambista nella vita. Per me si materializzò nella figura di Francesco Arcangeli, il mio docente di Storia dell’Arte che, quando andai a chiedergli la tesi, invece di assegnarmi un oscuro pittore del Barocco, mi dirottò inaspettatamente su di te. Rimasi lì per lì interdetto e obiettai: “Ma Fellini è un regista”. Non mi fece neppure concludere la frase: “No, è il più grande artista visivo del Novecento”.
Caro Federico, quando ti raccontai questo scambio di battute non avevi reagito scherzandoci sopra, come ti veniva di slancio per qualsiasi affermazione che ti provocasse disagio: ti limitasti a increspare uno di quei tuoi sorrisi timidi, sornioni, di immediata simpatia. Conoscevi Arcangeli di nome e non ti stupì la sua intuizione, la sua ammirazione. Eri al corrente della sua assoluta libertà di giudizio: sul Corriere della Sera, scandalizzando la lobby intellettuale, aveva scritto un elzeviro di elogio per un film di Eriprando Visconti, La monaca di Monza, a discapito del potentissimo e intoccabile zio Luchino!
Momi Arcangeli fu dunque il mio scambista, né saprò mai, senza di lui, dove sarebbe andato a fermarsi il mio treno, che è invece approdato a Cinecittà, presso la tua ‘casa’, la tua corte.
Accanto a te sono cresciuto alla vita, mi sono formato, mi sono plasmato nella conoscenza, nel mestiere e nel mondo del cinema. Non eri tipo da impartire lezioni, ma mi hai insegnato a mettermi in ascolto, mi hai accolto nella cella dell’Alchimista dove potevo udire le tue formule, osservare ogni tuo gesto.

Un giorno, quando ormai il nostro rapporto si era consolidato e ci capitava di rimanere a chiacchierare da soli, non era infrequente che si creasse uno spazio per le confidenze. Ti avevo così ribadito quanto fossi stato toccato più intimamente, tra i tuoi film, da Il Bidone. Credo che tu lo sapessi già, lo avevi letto nella mia tesi e certo non ti era sfuggito. “Andiamo a pranzo” proponesti, lasciando cadere il discorso. Salimmo in macchina e mi guidasti verso un ristorante di Monte Mario, sotto lo Zodiaco, in cui non eravamo mai stati. Esiste ancora, si chiama Il Bagatto (come la carta dei Tarocchi) e si apre su un’enorme terrazza, un grandangolo impareggiabile che spazia a volontà su Roma bella. Pranzammo con del pesce. Parlavi tu, io ascoltavo, avevi preso a raccontarmi della lavorazione del film e soprattutto di Broderick Crawford, che era quasi sempre ubriaco. Mi riferivi gli scherzacci goliardici con cui l’americanone si divertiva a stuzzicare Franco Fabrizi, omosessuale mascherato da sciupafemmine, che poi veniva a lamentarsi da te raccontando per filo e per segno, con malcelato compiacimento, le molestie del collega.
Mi avevi rivelato che i macchinisti erano stati costretti a costruire una specie di corsia di legno con palanche e cantinelle, in modo che Crawford, nei carrelli a precedere, potesse avanzare senza sbandamenti a favore della macchina da presa. Ma alla fine, avevi commentato con ammirazione: “Broderick era il vero attore americano che quando lo inquadri riempie tutto l’obiettivo: nessun altra faccia sarebbe stata in grado di restituire con tanta esattezza ciò che cercavo dal personaggio”.
Ricordo il sole, l’atmosfera, e i dialoghi di quel pranzo, come se fosse ieri. Eppure mi era sfuggita la coincidenza più importante, la ragione nascosta per cui mi avevi condotto in quel luogo. Se oggi scrivo questo racconto è soltanto per rimediare a quella svista imperdonabile. Pochi giorni fa, rivedendo Il Bidone nel DVD appena uscito in edicola, ho riconosciuto il locale in cui Augusto, il capo dei bidonisti, travolto dalla tenerezza per la figlia (Lorella De Luca) incontrata per caso a Piazza del Popolo, la porta a pranzo con sé. Con un sobbalzo ho riconosciuto d’un tratto il ristorante, il Bagatto, che allora si presentava come una semplice trattoria.
Per chi non sapesse cosa significhi questa parola, ecco qualche rapido cenno: il Bagatto è la prima carta degli arcani maggiori dei Tarocchi; è conosciuta anche come il Mago, il Giocoliere. Nei mazzi di più vecchia tradizione il Bagatto è rappresentato come un giovane artista di strada, un prestigiatore; su un tavolo ci sono gli attrezzi del suo mestiere, ma lo sguardo è rivolto verso un punto lontano. In seguito il Bagatto è stato raffigurato più spesso come un artigiano intento a svolgere la sua arte nel proprio laboratorio, per poi evolversi nel Mago delle raffigurazioni cartomantiche contemporanee.
Ora, rimesse insieme tutte le tessere, il disegno mi sembra più chiaro.


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