L’Ungheria di Orbán nel deserto dell’Europa 

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Sta accadendo esattamente ciò che temevamo: l’Ungheria di Viktor Orbán sta facendo scuola. Non c’era dubbio che finisse così: basti pensare ai sovranismi diffusi, all’atteggiamento inquietante di tutte le destre, a cominciare da quella italiana sui Coronabond, al silenzio pavido di molti europeisti al cospetto di un declino che appare inevitabile, alla mancanza di un dibattito all’altezza su questioni cruciali per il nostro futuro.
Sta accadendo che la mala pianta del totalitarismo si diffonde ogni giorno di più, com’era ovvio che accadesse nel vuoto di un’Unione Europea inadeguata, sbagliata, in cui la presidente von der Leyen continua a chiedere scusa al nostro Paese ma senza esprimere alcuna linea politica, senza un’idea, senza una proposta. Puro volontarismo, parole vuote e oggettivamente inutili, specie se si considera che non sono suffragate da nessun fatto concreto, che i falchi del Nord continuano a fare il bello e il cattivo tempo e che non è possibile andare avanti di questo passo.
L’Ungheria, con i pieni poteri accordati al suo dominus, si è solo portata avanti col lavoro, accelerando, probabilmente, il declino di un Continente disunito e in preda al caos, gettato nel panico da una serie di crisi a ripetizione di fronte alle quali non ha mai dato l’idea di essere all’altezza: né a livello politico né, cosa ben più grave, dal punto di vista umano e della solidarietà.
Si naviga a vista, si va avanti, per dirla con il grande Battisti, “a fari spenti nella notte”, ci si interroga sul da farsi e si cerca disperatamente di trovare il bandolo di una matassa che appare sempre più intricata.
Battersi per la libertà di parola e d’espressione, per la democrazia, per la centralità del Parlamento e contro questo degrado del vivere civile è dunque un dovere morale: in vista del prossimo 3 maggio, in occasione del settantesimo anniversario della Dichiarazione di Schuman e ogni singolo giorno. Il dramma è che ormai di tempo a disposizione non ne abbiamo più.

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