Quell’affascinante signore della Pomerania: un breve ricordo di Max von Sydow

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Il paradosso dei grandi attori che ci lasciano è quello di essere ricordati più per i loro ruoli più che per se stessi. Max von Sydow era uno di loro. Alla naturale signorilità che gli derivava dall’ambiente borghese-aristocratico e culturalmente elevato nel quale era nato e cresciuto – il padre era un etnologo e la madre, maestra, vantava il titolo di baronessa – univa una severità morale tipicamente luterana. Se l’azzurro dei suoi occhi è ancora una splendida nota di colore tra le sabbie del pianeta Arrakis nell’immaginifico “Dune” (1984) di David Lynch in cui incarna il dottor Liet-Kynes, planetologo imperiale di casa Atreides, il volto segnato del prete-archeologo Lankester Merrin de “L’Esorcista” (1973) di William Friedkin è indimenticabile.

Se n’è andato oggi, in tempo di devastazione (umana) e di pestilenza evocando il suo personaggio più grande: Antonius Block, il cavaliere protagonista de “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, il regista che l’avrebbe diretto per altre quattordici volte. E Antonius, di ritorno dalle sanguinose crociate pare ancora ammonirci: “…vedo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili; vi scorgo immagini d’incubo, nate dai miei sogni, dalle mie fantasie…”. Il fotogramma celeberrimo che lo ritrae a giocare a scacchi con la Morte è la metafora universale della finitezza della nostra vita, dei dubbi che ci attanagliano, di una serie di nodi esistenziali che possono trovare appiglio forse nella memoria e nella riflessione – ma anche nella musica, come ha fatto il duo fiorentino “La Cuenta”: Matteo Gigliucci chitarra, ampli e pedali e Nicola Savelli, batteria, macchine e pedali, con il loro ipnotico grunge “La confessione di Antonius Block” (con Narèsh Ran al violoncello). Ma nella sua sterminata filmografia ci piace ricordare Max Von Sydow almeno per un altro film, a cui siamo personalmente legati. Come dimenticare infatti l’amabile killer mercenario Joubert con l’hobby casalingo del modellismo, del thriller politico “I tre giorni del Condor” di Sydney Pollack (1975)?

L’europeo Joubert, intesse un rapporto particolare con la sua vittima, Joseph Turner-Condor (Robert Redford) e dopo aver fallito la sua eliminazione, riconosce la sua sconfitta di professionista della morte: “Il fuggiasco residuo è un dilettante, smarrito, imprevedibile, forse un po’ sentimentale. Può anche fregare un professionista, non per abilità: appunto perché smarrito non si sa mai cosa farà” – prima di offrirgli addirittura i suoi servigi e la sua abilità. Il loro rapporto è davvero singolare: amano entrambi l’arte, discettano di Mozart e Van Gogh. Ma agli imperativi morali del primo, Joubert ribatte cinico: “Il mio lavoro è di tutto riposo. E’ quasi pacifico. Nessun bisogno di schierarti da una parte o dall’altra. Non sposi nessuna causa. Devi avere fede solo in te stesso e fiducia nella tua precisione. Nel mio lavoro non chiedo mai il perché, le domande che faccio riguardano il quando, il dove qualche volta, ma sempre il quanto.”


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