Le peregrinazioni di úmah: un reietto per i sentieri della Palestina del I secolo

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I vagabondaggi di un asinello erano stati già il tema di un film, pietra miliare nella storia del cinema; ma se, pur in un quadro di cupo pessimismo, in Au hasard Balthazar, lungometraggio di Robert Bresson (1966), persisteva una strenua visione religiosa – nella quale qualche critico aveva ravvisato perfino venature ‘gianseniste’-, in questo racconto breve (4 facciatine) dallo stile limpido e accurato e dalla misura classica di Antonio Castronuovo, cade invece ogni anelito trascendente. Ci muoviamo nel territorio aspro, ruvido, ingrato della stretta immanenza. Il mondo è osservato dalla sua prospettiva più infima e insieme più autentica, attraverso l’infelice esistenza di úmah, povera bestia addetta al trasporto quotidiano di orci pieni d’acqua e di fascine accatastate sul basto: una vita – se così può chiamarsi – segnata da piaghe purulente, fatiche immani, dolorose bastonate. Nel racconto– è vero – entra per un attimo il Redentore neonato, ma la Grazia vi appare più che mai remota e refrattaria; nessuno, quanto meno, sembra esserne toccato.

Se Balthazar incarnava l’innocenza vessata da un’umanità volgare, insulsa, malvagia, e le sue coatte, stente peregrinazioni erano il pretesto per un’asciutta e impietosa raffigurazione dei vizi umani, quest’altro asinello, úmah (con l’iniziale minuscola, non certo in sprezzo alla bestia che ne porta il nome, ma come sottolineatura del poco o punto conto che i successivi padroni faranno di lui), è, in primo luogo, l’emblema disperante della transitorietà di tutte le cose. Poco importa che úmah non sia una bestia qualunque; che, al contrario, sia l’asinello leggendario la cui memoria – insieme a quella del bue che immancabilmente gli si accompagna – si è perpetuata nei secoli: la sua sorte individuale non sarà meno rude o esemplare per questo.

Umah compirà il suo ingrato servizio per le pietraie assolate e fangose della Palestina finché le zampe, appesantite dagli stenti, gli reggeranno. Poi, diventato inutile, sarà ceduto per quattro soldi a pretesi, non meglio identificati ‘uomini pii’ che faranno di lui pelli di tamburo al cui suono accompagnare la lettura di oscuri e misteriosi salmi o dell’immortale Qohelet (l’Ecclesiaste), il più desolato fra i libri sapienziali («Vanità delle vanità, ho veduto tutte le cose che si fanno sotto al sole, ed ecco il tutto è vanità e inutile affanno»)

La macellazione di úmah non è descritta, bensì efficacemente sottintesa in un brusco trapasso narrativo.

Il nulla – termine che ricorre quattro volte in un breve testo nel quale non una parola è superflua – è forse la corretta chiave d’interpretazione: quel nulla che, certamente, è stata l’esistenza di úmah, riscattato peraltro dall’asciutta narrazione di Castronuovo che ne perpetua il ricordo e implicitamente ne piange – ne canta – l’ingrato destino; e l’altro nulla, forse, quello dell’epoca nuova, a cui un’oscura eresia ebraica avrebbe piegato, nella visione univoca – trionfo di un’arida verità assoluta – e nell’inesorabile, auto-referenziale schematismo bene-male propri del monoteismo, intere civiltà fino ad allora irriducibilmente estranee, contraddicendo e tradendo finalmente il fertile dinamismo, la schietta e gioconda amoralità, l’aperta e leale disponibilità alla contraddizione e al capriccio – in una parola: la libertà – che avevano caratterizzato l’età classica.

Parliamo, beninteso, quanto a dimensioni, di una – sconfortante – fiaba di quattro pagine; ma lo stile rivela piena padronanza dei mezzi espressivi e una sicura maturità artistica, nella quale si incontrano naturalmente semplicità e rigore, sobrietà e inventiva, puntiglio e brillantezza. Quattro pagine che, toccando accenti dolorosamente partecipi – eppure nel ripudio coerente di qualsiasi motivo consolatorio – inscenano l’eterna insensatezza del mondo e della vita, «l’errore primordiale che non ha fine».

 

Antonio Castronuovo

La pelle di úmah

BabboNatale MMXIX

(BabboNatale è marchio natalizio di © Babbomorto Editore)


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