Black Monkey, per i giudici d’appello “non è ‘ndrangheta”

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Sofia Nardacchione 

Il gruppo guidato da Nicola ‘Rocco’ Femia non è mafia. A dirlo sono i giudici della Corte di Appello di Bologna, che il 29 ottobre hanno emesso la sentenza di secondo grado del processo Black Monkey.

Ora le motivazioni del verdetto, depositate pochi giorni fa, spiegano i motivi di questa scelta: secondo i giudici, “non risulta che la caratura mafiosa di Femia Nicola – già condannato per narcotraffico internazionale – sia stata trasmessa all’intera struttura associativa, giungendo a compenetrarla e a caratterizzarla”.

In particolare, si legge sempre nelle motivazioni, “da un lato non è emerso che la forza intimidatrice sia promanata impersonalmente dal sodalizio; dall’altro lato non si è verificato uno stato di generale assoggettamento e omertà nei soggetti destinatari dell’attività delittuosa”.

Insomma, non ci sono abbastanza elementi per riconoscere come mafiosa l’associazione che si occupava di gioco d’azzardo legale e illegale, con base a Conselice, in provincia di Ravenna, ma con affari in tutta Italia e non solo. Un business basato sulla produzione e la distribuzione di slot machine e delle relative schede, spesso alterate per frodare o l’Erario o il singolo giocatore e la distribuzione di accesso alle piattaforme di gioco del poker online non autorizzate (come avevamo spiegato in un precedente articolo).

La sentenza dello scorso ottobre ha ribaltato quella di primo grado, in cui, nel febbraio del 2017, per la prima volta il Tribunale di Bologna aveva emesso condanne per il reato di associazione mafiosa, reato stralciato in Appello con la conseguente diminuzione delle condanne: Nicola Femia, a capo dell’associazione, che in primo grado era stato condannato a 26 anni e 10 mesi – per i reati di 416bis, gioco d’azzardo non autorizzato, poker on line non autorizzato, intestazione fittizia di beni, minacce e intimidazioni, pestaggi, estorsioni, corruzione – si è visto ridurre la condanna a 16 anni.

Nel corso del dibattimento erano emersi diversi elementi utili per riconoscere come mafiosa l’associazione che, secondo i giudici del primo grado di giudizio, era caratterizzata  da “una capacità intimidatoria, progressivamente affermata con atti concreti e abituali (visite in gruppo, minacce, estorsioni, pestaggi) che hanno garantito sempre più soggezione e omertà in capo a chi ha avuto a che fare con l’associazione”. Durante il dibattimento, infatti, decine di volte testimoni impauriti avevano affermato di non ricordarsi episodi avvenuti mesi o anni prima. Non episodi qualunque, ma, appunto, minacce, estorsioni, pestaggi, intimidazioni, lettere minatorie, incendi… Continua su liberainformazione


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