Trump col fucile per la presidenza bis

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A ottobre Trump aveva eliminato al Baghdadi, adesso ha ucciso  Soleimani. Il primo fu eliminato da un commando di truppe scelte della Delta Force e dei Ranger nel suo rifugio segreto nella Siria del nord, il secondo è stato polverizzato venerdì 3 gennaio dai missili americani sul suo veicolo mentre era diretto a Bagdad, dopo aver lasciato l’aeroporto internazionale della capitale irachena.

Abu Nakr al Baghdadi era un uomo sconfitto, era il leader dell’Isis che si nascondeva nel deserto dopo aver perso il Califfato islamico (aveva  conquistato e governato col terrore gran parte dell’Iraq e della Siria, giacimenti petroliferi compresi).  Qassem Soleimani invece era un vincente, era il capo delle brigate Quds delle Guardie rivoluzionarie iraniane; l’artefice dell’espansione della Repubblica islamica komeinista in Iraq, Siria, Libano e Yemen. Al Baghdadi era il leader del terrorismo islamico sunnita famosissimo in tutto il mondo, Soleimani era un generale poco noto al grande pubblico internazionale ma  protagonista importante e in ascesa nell’Iran alfiere dell’integralismo musulmano sciita.

In Iran e in Iraq le folle manifestano contro gli Usa per l’uccisione di Soleimani ma c’è anche chi è contento  ricordando il suo ruolo nella repressione delle proteste popolari contro il caro vita. Molti iracheni gli contestano il progetto di assoggettare il loro paese all’Iran.

Donald Trump annunciò a fine ottobre: il leader dell’Isis Abu Nakr al Baghdadi «è morto dopo essere fuggito in un vicolo cieco, piangendo e urlando». Riscosse il plauso e gli apprezzamenti da amici, alleati, avversari e perfino da nemici. Il presidente statunitense il 3 gennaio ha commentato: «Il generale Soleimani stava preparando nuovi attacchi. Il suo regno di terrore è finito».

Ma in questo caso la reazione internazionale è stata ben diversa: Teheran ha annunciato sanguinose rappresaglie. L’ayatollah Seyyed Ali Khamenei ha minacciato: «Una vendetta implacabile attenderà i criminali che si sono sporcati le mani con il suo sangue». Alcuni razzi e colpi di mortaio sono già cominciati a cadere sull’ambasciata Usa a Bagdad e su una base militare statunitense vicina alla capitale irachena.

L’Iraq ha reagito con ostilità al raid americano, ha deciso di voler allontanare le truppe straniere anti Isis a guida Usa. La Cina e la Russia sono state gelide. L’Europa ha invitato alla prudenza.  Le Borse occidentali hanno accusato una caduta e i prezzi del petrolio si sono impennati sui mercati internazionali, sentendo odore di una nuova guerra in Medio Oriente.

La tensione è altissima da mesi. A settembre dei misteriosi attacchi missilistici (per fonti Usa sarebbero stati opera di milizie legate a Soleimani) hanno distrutto buona parte delle raffinerie petrolifere dell’Arabia Saudita, la ricca potenza musulmana sunnita alleata degli americani e antagonista  dell’Iran sciita. Successivamente sono state misteriosamente colpite (Washington ha visto sempre la mano del generale iraniano) diverse petroliere in transito nello Stretto di Hormuz nel Golfo Persico.  Quindi è finita sotto assedio l’ambasciata statunitense a Bagdad, sfuggita per poco al furioso assalto di una folla in rivolta e di miliziani sciiti.

Trump non l’ha presa bene soprattutto perché è ormai in piena campagna elettorale. Ha deciso di sposare le posizioni dei “falchi”: ha annunciato pesanti ritorsioni  contro  Teheran se verranno uccisi cittadini o militari statunitensi. A novembre negli Stati Uniti d’America si voterà per la Casa Bianca e il presidente ambisce ad ottenere un secondo mandato. Tuttavia la strada per riconquistare la presidenza degli Usa si sta rivalendo sempre più difficile anche perché la Camera dei rappresentanti, controllata dai democratici, ha votato per la sua messa in stato di accusa per alto tradimento.

Certo il Senato, a maggioranza repubblicana, è improbabile che voti l’impeachment ma non si è mai visto un presidente americano ottenere un secondo mandato se gli occupano una ambasciata all’estero o se l’economia va male. Così Trump da oltre un anno ha lanciato la sfida di aumentare i dazi Usa sulle esportazioni della Cina, dell’Europa e del Giappone anche a rischio di causare una recessione internazionale. E ha premuto pericolosamente il pedale dell’acceleratore dei rapporti muscolari con la Repubblica islamica iraniana. Muscolari anche a costo di sfiorare il rischio di una guerra.


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