‘Cita a ciegas’ o il tango del destino, al Teatro Franco Parenti di Milano

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Cita a ciegas (Confidenze fatali) dell’argentino Mario Diament − traduzione, adattamento e regia di una visionaria Andrée Ruth Shammah, mentre la scena dalla sobria e raffinata eleganza è di Gianmaurizio Fercioni − è uno spettacolo che va visto non solo con gli occhi, bensì con quello sguardo perforante la membrana delle apparenze del quale si fa portatore e simbolo il personaggio centrale della pièce, lo scrittore cieco, liberamente ispirato a Jorge Luis Borges.

La voce oracolare del veggente cieco, un Tiresia dandy (Gioele Dix), lancia saette profetiche laceranti il velo di Maya che sembra offuscare lo sguardo degli altri quattro personaggi (uomo, donna, psicologa, ragazza), tutti legati tra di loro da un filo invisibile ma spietato. Di volta in volta, essi si siedono sulla panchina, avvolti dalla sensualità vegetale del Jacaranda in fiore che sembra predisporli alla dolorosa seduzione della confessione e del progressivo disvelamento della verità, o meglio, delle verità. Poiché la verità non è una sola, non esistono verità assolute, né certezze. Siamo immersi in un tango sinuoso che parla di destini insondabili, di possibilità infinite, di vite che si propagano in universi paralleli e che, invero, sono stati già ipotizzati dalla meccanica quantistica, dallo stesso scrittore Borges, e al cinema da film come Sliding Doors: volendo fare un passo ancora più in là, si potrebbe ricordare anche il più recente Interstellar di Cristopher Nolan.

Ma basta riflettere su ciò che l’uomo abbia da dire sulla cecità per renderci conto della spiraliforme dimensione interpretativa del testo:

Essere ciechi apre molte porte, si ha accesso ad altri mondi […] esistono altre realtà parallele nelle quali tutto ciò che è probabile può accadere… è possibile vivere più di una vita come una commedia dai molti finali ma non uno dopo l’altro: tutti insieme, parallelamente.

Chi è dunque il protagonista della pièce? Il cieco che scruta nelle anime, scatenandone l’anamnesi? Il bancario travolto dalla passione degenerata in follia omicida? La ragazza che cerca di nascondere l’orrore (di bernhardiana memoria) di assomigliare alla madre dietro le sculture ‘astratte’? La donna che ha vissuto una vita di menzogna perché le è mancato il coraggio di svelarsi allo scrittore che l’ha sempre aspettata e cercata? La moglie-psicologa che indaga i vissuti scientificamente, con metodo, ma non per questo è capace di svelarne il mistero? O sarà forse la panchina – molto più efficace del divano psicanalitico nell’innescare il processo di svelamento dei personaggi, incalzati dalle domande propedeutiche alla rivelazione poste dal saggio? E chissà quanti destini si saranno rivelati a se stessi proprio su quella leggendaria panchina in Plaza San Martin, a Buenos Aires dove Borges amava sostare?

«Ogni incontro casuale ha la complessità dell’universo» così come ogni «incontro mancato è un grande enigma», viene detto. I personaggi sono avviluppati in una ragnatela di incontri casuali e di incontri mancati, di incontri ritrovati e di incontri fatali. È certamente il destino che presiede a tali incontri: è lui la figura centrale di questa opera polifonica a metà strada tra dramma e commedia, un po’ thriller, un po’ racconto fantascientifico − basti pensare al lungo e affascinante monologo iniziale di Gioele Dix.

I percorsi incrociati dei personaggi formano un ingarbugliato labirinto di incontri che gradualmente ma inesorabilmente cominciano a stagliarsi dall’apparente caos della casualità iniziale, per cristallizzarsi attorno al nucleo del fato. L’unico ad afferrarne la travolgente portata è il cieco con quel suo sguardo che sembra perso nel vuoto, ma che in realtà scandaglia incessantemente gli abissi dell’anima per riportare in superficie gemme dalla dolente bellezza: «Mi fa male una donna in tutto il corpo».

Il fil rouge che unisce tutti è, ancora una volta e come sempre, l’amore. L’amore che trascina i destini, l’amore inevitabile, «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Il leitmotiv della pièce sembra essere proprio il mistero dell’inevitabilità dell’amore, con tutte le infinite sfumature delle sue conseguenze: dall’amore ritrovato dopo decenni da quell’unico, fugace sguardo su una scala mobile a Parigi, a un amore consumato fino al tradimento e al conseguente abbandono, all’amok per l’amore non corrisposto che finisce in tragedia. Possiamo e dobbiamo accettare l’inevitabilità dell’amore, ma, come ci ricorda il cieco, non sappiamo mai ‘quando’ comincia l’Inevitabile.

Confrontarci con l’Inevitabile dunque è come scegliere quale vita vivere, quale diramazione del destino imboccare in questo eterno gioco di specchi dove l’io sembra smarrirsi, inseguendo una trasfigurazione che spesso gli sfugge di mano come sgusciante anguilla. La donna sulla panchina si domanda cosa sia l’eternità, sconvolta dalla terribile portata del suo interrogativo. Lo scrittore le risponde con pacata dolcezza, e proprio come avrebbe fatto Borges, le fa immaginare una infinita biblioteca contenente tutti i libri che racchiudono tutte le storie che sarebbero capitate se ciò che accadde non fosse mai accaduto.

Certo, molto poeticamente l’opera parla dell’inevitabilità e dell’eternità dell’amore e il finale segna il romantico e ‘inevitabile’ ricongiungimento della coppia di amanti separati da una vita di incomprensioni e di nodi che finalmente si sciolgono nel dono disinteressato di un sentimento così dirompente da sfidare la logica e il tempo. Il cieco parla di questo mistero ancora una volta, attraverso i versi di Borges: «Ti offro quel nocciolo di me stesso/che ho conservato, in qualche modo –/il centro del cuore che non tratta con le parole/né coi sogni e non è toccato dal tempo».

Calato il sipario non ci rimane che guardare attorno a noi stessi, nelle vite e nei destini che si srotolano tutti i giorni in noi e attorno a noi per renderci conto che le nostre anime, facilmente infiammabili dalla ‘inevitabilità’ di Eros, sono state da tempo ignifugate e non palpitano più in questa assuefazione al cinismo, al grigiore quotidiano, all’inevitabilità del peggio. Il teatro di parola allestito da Shammah consegna allo spettatore un messaggio forte, lenitivo, salvifico: c’è ancora un mondo infinito di possibilità inesplorate pronto a dischiudersi a chi avrà il coraggio e la curiosità di guardare dentro di sé.

Cita a ciegas

di Mario Diament

traduzione, adattamento e regia di Andrée Ruth Shammah

con Gioele Dix – Laura MarinoniElia Schilton – Sara BertelàRoberta Lanave

scena Gianmaurizio Fercioni

luci Camilla Piccioni

costumi Nicoletta Ceccolini

musiche Michele Tadini


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