“Scene da un matrimonio”: azione, ritmo, incomunicabilità, umorismo, dolore e lacerazioni, ma senza l’”angoscia” di Bergman

0 0

La fabula è semplice: il legame di una giovane coppia sembra solido e sereno, in realtà vacilla. Lui, Giovanni, insegnante universitario di psicologia, lei, Marianna, avvocato divorzista, dopo dieci anni in cui hanno avuto due figlie, si sono strenuamente dedicati al lavoro e alla famiglia, hanno frequentato diligentemente, ogni domenica, i genitori, si sono sempre preoccupati di programmare ogni minuto della loro esistenza, impedendo che nemmeno una tessera, come dice Marianna, della loro vita quotidiana rimanesse libera o potesse riservare delle sorprese, vedono il loro matrimonio crollare repentinamente, come un castello di carte. Lui confessa di amare un’altra donna. Lei cerca di convincerlo a restare ma lui se ne va. Si incontreranno altre volte nel corso degli anni, fino alla scena più drammatica della pièce in cui, dopo un feroce litigio, metteranno la firma sui documenti accartocciati del loro divorzio. Ma non è l’ultima scena.

Dell’omonimo film di Bergman, visto tanti anni fa (primi anni ’70), rammento ancor più della violenza fisica la violenza verbale: i dialoghi roventi, all’inizio reticenti, poi sempre più ruvidi, sinceri, senza misericordia, crudi e brutali, in particolare da parte dell’uomo, Joahn (Erland Josephson), che feriscono l’amor proprio (come direbbe Leopardi), lo fanno a fette, mettono a nudo le anime, le spogliano coram populo. Rammento le frequenti inquadrature in primo piano che scandiscono i momenti topici della storia. Un’acustica schiacciata sulla voce, sui singulti, sulle pause, sui sospiri dove, spesso, il moto più minuzioso del volto accompagna il movimento delle parole, smaschera l’emotività tenuta a freno dalla scelta dimessa, anti-melodrammatica del linguaggio.
Ne ricordo una in particolare che inquadra il viso di Marianne (Liv Ulmann) quando riceve la confessione del tradimento da parte del marito. Non ci sono parole, nel senso che nessuno dei due dice più niente per un bel po’ di tempo, ma si capisce che cosa passa per la testa dei due: vergogna e fastidio nell’uomo, incredulità e sbigottimento nella donna. Uno sbigottimento così infossato nelle viscere da togliere il fiato, innescando un processo di deep feeling, di condivisione profonda, straziante, per lo spettatore. Ritorna la parola ma sale da un oltretomba dell’angoscia, con un rantolo che culmina nella domanda: e adesso che cosa facciamo? Prima di quella domanda, c’è un silenzio abissale, in cui lo spettatore, preso da vertigine, può tremare, voltarsi dall’altra parte o invece, se ha il coraggio, concentrare la sua attenzione sul volto dell’attrice e osservare in un primissimo piano la catastrofe, le rughe che vanno e vengono sulla fronte, le sopracciglia che s’innalzano e si distendono, le pupille che si dilatano e si restringono, la bocca che sembra potersi spalancare in un urlo lacerante che poi viene faticosamente soffocato richiudendosi. È un’inquadratura che mostra impietosamente nel movimento di un volto il passaggio da uno stato di calma inquieta a uno di plumbea souffrance. Ci fa sentire che cosa succede dietro quel volto, il moto tempestoso, le onde che si sollevano, l’arrivo di uno tsunami emotivo che Marianne cerca, con la forza della volontà e del ragionamento, di arginare e respingere.
Il clima emotivo, ancor prima che sentimentale, di questa scena come di tante altre scene di Scene da un matrimonio (come di tanti altri film di Bergman), è quello che si respira nel pensiero di Kirkegaard, nelle opere teatrali di Ibsen, di Strindberg, nei quadri di Ensor, di Munch: l’angoscia. Un furore trattenuto, una melancolia offesa e umiliata che innesca una devastante paura della paura.

In Scene da un matrimonio di Raphael Tobia Vogel ci sono alcune di queste componenti e molto altro ma non c’è l’angoscia. E non c’è nemmeno la rassegnata disperazione delle Scene da un matrimonio di Gabriele Lavia e Monica Guerritore.
C’è il dolore, la sofferenza. C’è una sottile, sottaciuta vena di estraneazione che di rado si manifesta apertamente ma che palpita nella gesticolazione esacerbata, a volte furente, eccessiva dei due attori. Ci sono anche delle grida. Ci sono gesti assurdi, comici, ma emblematici e non privi di tenerezza oltre che di una disperazione non rassegnata, come quando Marianna riesce a infilarsi, in preda a frenesia, nella valigia di Giovanni che sta per partire.
C’è uno strascico esilarante, quasi farsesco, di incomunicabilità pirandelliana: “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”, dice il Padre rivolgendosi al Capocomico, in Sei personaggi in cerca d’autore. C’è l’umorismo, ovvero il sentimento del contrario di Così è se vi pare come di tante altre commedie, novelle, romanzi di Pirandello, dove i comportamenti bizzarri, le parole, i gesti e le gesta dei personaggi trovano la loro fonte e la foce nelle sofferenze del vissuto.
Ed è questo vissuto che emerge al Franco Parenti in una recitazione estroflessa. All’interno dell’umorismo, cova un’ironia diffusa, talora scoperta, a volte impalpabile e c’è una comicità che in Bergman non c’è quasi mai (al suo posto, di solito, un amaro sarcasmo). Infatti, tranne le ultime due scene che lasciano con il fiato sospeso, il pubblico, durante lo spettacolo, spesso ha riso apertamente o ha sorriso per i toni frastornati o strozzati delle voci, per le battute taglienti o indifese di Marianna o per quelle, spesso in contropiede o disarmanti di Giovanni.

C’è una recitazione dinamica, fisica, gestuale. I dialoghi rapidi, incalzanti danno una direzione, un senso nuovo, frizzante, ilare, reattivo, alle frasi melancoliche dei cupi colloqui bergmaniani. I tempi fluiscono veloci. I due attori si spostano con rapidità sulla scena ed è notevole la capacità di entrambi nel tener testa e rilanciare questo dinamismo sferzante l’uno dall’altro, l’uno sull’altro. Spesso cambiano vestiti, parti dell’arredo, con o senza l’aiuto di due fantasmatici assistenti, un uomo e una donna, che li aiutano in queste operazioni pratiche, sempre attenti a mantenere il ritmo dell’azione.
Il culmine drammatico, il climax, non è raggiunto nella scena della confessione del tradimento da parte dell’uomo, come nel film di Bergman, ma nella scena in cui Giovanni e Marianna, dopo aver fatto all’amore, si lacerano, si picchiano, si sbranano. È una resa dei conti feroce, un duello condotto ad armi quasi pari. È una scena dolorosa, frenetica, convulsa, indiavolata, altamente drammatica. Volano insulti e parolacce. Mulinano schiaffi e calci, (reali ma eseguiti per finta, s’intende: sempre finzione è e tale vuole apparire anche quando sembra vera). Volteggiano mani e piedi, braccia e gambe. È l’uomo che attacca ma la donna si difende, anzi, è lei che lo provoca (la Marianna di Sara Lazzaro è meno remissiva della Marianne di Liv Ulmann). Volano i vestiti come stracci, i corpi avvinghiati e poi abbandonati a terra, colpiti. Alla fine si sente l’ansimo soprattutto di Marianna. C’è collera, furia, afflizione, pena anche frustrazione, stupore. Un nodo complesso ma non c’è la melancolia che imperversa in Bergman. Soprattutto non c’è l’angoscia. L’Angst, la paura della paura.

La risoluzione, a sorpresa, arriva nell’ultima scena, con un estatico colpo di scena.
I due attori, per la prima volta, si rivolgono a noi, al pubblico. Li vediamo in faccia, davanti, diversi, nuovi. Sembrano usciti fuori di sé, dalla loro maschera ovvero dalle precedenti gabbie. C’è prima il soffio di una tramontana, che li stacca in un altrove, poi un ritmo di danza elementare, strano ma disteso. Il tempo si è fermato, non corre più a rotta di collo verso il nulla. C’è un altro tempo, un tempo sospeso, un’altra dimensione, un soffio magico, un magico presente, in cui può avvenire l’incontro, poiché i due si amano, in fondo non hanno mai smesso di amarsi, nonostante tutti gli anni passati (anche con altri partner), gli oltraggi subiti, le ferite inferte l’uno all’altra, non possono fare a meno l’una dell’altro e così, per la prima volta, si possono parlare in modo disteso, si possono amare, senza gli assilli della vita quotidiana, del lavoro, dei figli, dei genitori, del futuro, del passato.

Lunghi, infine, e meritati gli applausi.

SCENE DA UN MATRIMONIO
di Ingmar Bergman
traduzione italiana Piero Monaci
adattamento teatrale Alessandro D’Alatri
regia Raphael Tobia Vogel
con Fausto Cabra e Sara Lazzaro
scene Nicolas Bovey
luci Oscar Frosio
musiche Matteo Ceccarini
costumi Nicoletta Ceccolini
contenuti e montaggio video Luca Condorelli
aiuto regista Lisa Capaccioli
assistente scenografa Sabina Bratu
seconda assistente scenografa Matilde Casadei
pittore scenografo Santino Croci
direttore dell’allestimento Marco Pirola
direttore di scena Paolo Roda
elettricista Martino Minzoni
sarta Marta Merico
scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati dalla sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni
Si ringrazia Silvia Giulia Mendola per aver prestato la sua voce
produzione Teatro Franco Parenti

le fotografie sono di Luca Condorelli

al Teatro Franco Parenti di Milano da 14 al 24 marzo 2024

 

“Scene da un matrimonio”: azione, ritmo, incomunicabilità, umorismo, dolore e lacerazioni, ma senza l’”angoscia” di Bergman


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21