“Io non sono come un campo”: il potere del Logos (‘Coltelli nelle galline’, regia di Andrée Ruth Shammah)

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Milano – In una comunità indefinita e in un’epoca non precisata, ma a vocazione inequivocabilmente rurale, un marito vecchio e una moglie giovane prima di andare a dormire si scambiano parole raffiguranti un dislivello comunicativo. Lei parla in un modo innaturale e incerto, lui è essenziale e assertorio. In scena, molto vicino agli spettatori, disposti su panche di poche file che corrono sui tre lati della pedana che fa da palco, oltre ai tre attori e al telo per proiettare sullo sfondo, ci sono tre modellini che riproducono tre ambienti diversi e che rappresentano in scala minore gli ambienti in cui si svolge l’azione teatrale: la stalla dei cavalli, la casa dei contadini, il mulino; uno sdoppiamento carico di senso, dove il modellino benché più ricco di dettagli risulta inevitabilmente immobile, proprio come le definizioni rispetto alla realtà.

La vicinanza del pubblico allo svolgimento della scena è voluto e ricercato, all’interno del foyer del teatro adattato a nuova sala teatrale. Siamo quasi dentro al sudore dei personaggi e ai video proiettati sullo sfondo, sembra quasi di sentire l’odore di fieno e di toccare con mano l’arretratezza delle condizioni di vita, effetto interessante perché a dire il vero l’immedesimazione in un ambiente tanto contadino potrebbe non scattare facilmente in chi ha appena spento il suo smartphone e lasciato fuori dal Franco Parenti la città brulicante.

Eva Riccobono veste i panni della Giovane Donna, una contadina bionda e slanciata, eppure in una postura sempre un poco ingobbita e chiusa su stessa, con lo sguardo stralunato in bilico tra lo stupito e l’ebete, e la cadenza innaturale di chi parla con una certa fatica, di chi non è avvezzo alla parola. Uno sforzo recitativo visibile e ben riuscito, ma che non mette mai tra parentesi il suo aspetto così poco grossolano. E’ in lei che a un tratto nascono interrogativi sul potere delle parole, a partire dalla metafora che usa il marito dicendole che lei è come un campo: ma lei no, non è un campo, e ha bisogno di spiegazioni che non ottiene, così comincia a farsi domande sul mondo, su chi stabilisce i nomi delle cose, sul desiderio di conoscenza e sulla parola che ci avvicina a Dio, che per primo nomina e con questo in qualche modo “crea” tutto ciò che esiste. Una riflessione inconsapevolmente ermeneutica che apre il mondo della contadina in maniera esplosiva, in tutte le direzioni, facendole guardare la natura in modo nuovo e rendendole visibili i limiti imposti dal marito e i vincoli sociali imposti dalla gente del villaggio, che potrebbe pensare che lei sia tutta matta, vedendola immota nei campi, in piedi a fissare qualcosa e a muovere le labbra tra sé e sé, alla ricerca di definizioni che non conosce e di un ordine cosmologico che non riesce a formulare né a contenere nel suo pensiero.

Ed ecco che in suo aiuto accorre la parola scritta, quella che le viene offerta dal chiacchierato mugnaio, inviso all’intera comunità timorata di Dio, un giorno che il marito, (un massiccio, convincente e concreto Maurizio Donadoni) non può recarsi al mulino a farsi macinare il grano per via di una cavalla sul punto di partorire alla fattoria. Il mugnaio, considerato da tutti l’assassino della sua stessa moglie, odiato e allo stesso tempo temuto per i suoi incantesimi nefasti, le entra nella testa perché ha letto libri, scrive tanto e parla corretto. La confonde, la turba. L’interpretazione di Pietro Micci innerva di passione la figura del mugnaio, dilaniato dal dolore e dall’isolamento ma reso forte e imperturbabile dall’analisi scritta e distaccata di ciò che accade. La scenografia duplica la sua immagine in bianco e nero in successione serrata, mentre solleva farina come fosse fumo infernale e invita al peccato. Gilbert Horn affascina la Giovane Donna, da un lato mettendole la pulce nell’orecchio sui tradimenti del marito e così invogliandola a tradire a sua volta, ma dall’altro spronandola a scrivere, a ribellarsi al dominio delle consuetudini e delle dicerie del villaggio, a rendersi indipendente dal contadino grezzo che le fa da marito e da padre-padrone e finalmente ad approfondire la conoscenza e con essa assaporare il gusto di sentirsi elevata quasi al grado di Dio. Un novello Mefistofele che usa penna e linguaggio per far intravvedere alla Giovane Donna quanto sia limitata la sua vita alla fattoria, chiamandola per nome. Il suo vero nome, non i nomignoli svilenti che usa il marito nei suoi confronti.

E’ così che la statuetta che rappresenta la contadina – che la Riccobono inizialmente porta con sé e sposta di ambientazione in ambientazione, inserendola a turno in un modellino o nell’altro – a un certo punto perde d’importanza e sparisce, non l’accompagna più, come se la Giovane Donna si liberasse d’un tratto della sua immagine sociale, del suo ruolo prefissato e decidesse di ribellarsi. Al punto da liberarsi anche del marito. Sul finale il tradimento e la violenza rubano forse la scena all’ispirazione profonda del testo, ovvero alla riflessione sul linguaggio, sui giudizi precostituiti e sull’antidoto fornito dalla cultura e dalla rielaborazione personale. Forse deve morire in un certo senso anche la morale legata al senso comune per sottolineare l’approdo ad un altro piano di libertà, ma il finale sembra spostare il focus dell’opera dalla riflessione all’azione istintiva e lascia quasi spiazzati per il precipitare degli eventi. Certo, le azioni finali fanno definitivamente tramontare l’immagine della donna oggetto e la rendono totalmente protagonista delle sue azioni e della sua vita, ma l’emancipazione che sembrava passare in via privilegiata dalle parole e dalla consapevolezza, si traduce invece in rottura violenta e più legata al sentire che all’esercizio della razionalità. Forse perché la conoscenza è anche carnale, è anche cuore, e non solo mente? O perché il potere del Logos ci avvicina pericolosamente alla Hybris? Le domande e l’insoddisfazione innescano la miccia del cambiamento e della liberazione, dove ci porteranno questi ultimi però, sembra suggerire David Harrower, drammaturgo scozzese pluripremiato, non è dato sapere.

Coltelli nelle galline

di David Harrower
traduzione Monica Capuani e Andrée Ruth Shammah
regia Andrée Ruth Shammah
con:
Eva Riccobono – Giovane Donna
Maurizio Donadoni – Pony William
Pietro Micci – Gilbert Horn

scene Margherita Palli con la collaborazione di Marco Cristini
luci Camilla Piccioni | costumi Sasha Nikolaeva | musiche Michele Tadini | video Luca Scarzella


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