NON SONO LOMBARDI O VENETI I GARANTI DELLA COSTITUZIONE

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Secessione. In gioco è l’assetto repubblicano. Con i presidenti di Veneto e Lombardia si può tuttavia essere d’accordo su una cosa: se il progetto fosse approvato la storia italiana cambierebbe. Ma in peggio

I presidenti di Lombardia e Veneto scrivono al Presidente del consiglio sull’autonomia differenziata, richiamando la Costituzione con sicurezza – forse anche con un po’ di sfrontatezza – con una interpretazione “letterale”, del testo costituzionale.

Scrivono infatti: “La nostra autonomia si basa su quanto dice la Costituzione, siamo perfettamente in linea con la legge fondamentale dello Stato, la nostra richiesta di avere competenza rispettivamente su 20 e su 23 materie, si basa su quanto recita l’articolo 116, terzo comma. Chi afferma il contrario, o non conosce la Carta, o vuole evidentemente modificarne il testo vigente: sarebbe bene pertanto che presentasse un disegno di legge costituzionale per modificare di nuovo il titolo quinto. Tertium non datur. Avremmo voluto che il Presidente del Consiglio fosse davvero il garante della Costituzione vigente, denunciando le false notizie diffuse con malizia e cattiva fede da chi evidentemente la Carta l’ha letta soltanto sul Bignami.”

Ora è noto – a chi non si è fermato alla lettura dei riassuntini costituzionali – che non ci si può proprio accontentare di “recitare” una parte della nostra costituzione (in questo caso il terzo comma dell’articolo 116) per comprendere i limiti della sua attuazione.

Come ha scritto chiaramente la Consulta in una sentenza che dovrebbe essere tenuta presente dai due presidenti di regione: “L’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative, metodo primitivo sempre, lo è ancor più se oggetto della ricostruzione ermeneutica sono le disposizioni costituzionali, che contengono norme basate su principi fondamentali indispensabili per il regolare funzionamento delle istituzioni della Repubblica democratica.

La natura derogatoria del principio di uguaglianza, propria delle norme che sanciscono le prerogative degli organi costituzionali, impone – come questa Corte ha costantemente affermato – una stretta interpretazione delle relative disposizioni. Sono pertanto escluse sia l’interpretazione estensiva che quella analogica, ma resta possibile ed anzi necessaria l’interpretazione sistematica, che consente una ricostruzione coerente dell’ordinamento costituzionale” (sent. n. 1 del 2013).

Un linguaggio troppo sofisticato per gli standard (“primitivi”) della comunicazione politica? Può darsi. Ma anche alle orecchie dei fautori dell’autonomia senza limiti dovrebbe essere chiaro perlomeno il senso. Quando è in gioco l’assetto complessivo della Repubblica democratica – nel nostro caso si tratta del trasferimento ad alcuni enti territoriali delle competenze su sanità, scuola, istruzione, beni culturali, ambiente, rapporti internazionali, commercio estero, coordinamento finanza pubblica, sicurezza del lavoro, grandi reti di trasporto, ed altre ancora – non ci si può limitare ad invocare la lettera di una disposizione che permette maggiore autonomia, ma è necessario prima di tutto guardare ai limiti che l’ordinamento costituzionale nel suo insieme impone. E la stessa Consulta ricorda qual è il confine insuperabile: il rispetto del principio d’eguaglianza.
Basterebbe in fondo non limitarsi a ripetere meccanicamente una formula (quella contenuta nella lettera del terzo comma del 116), ma spingersi a comprenderne il senso, leggendola non “isolatamente”, bensì “sistematicamente”. In tal modo emergerebbero tutte le criticità costituzionali dell’attuale progetto di autonomia differenziata, scritto per garantire le prerogative di alcuni dimenticando i diritti degli altri.

La questione di fondo è come salvaguardare ovunque, anche nelle altre regioni, un sistema uniforme di tutela dei diritti fondamentali (i famosi lep che la nostra costituzione vuole siano garantiti su tutto il territorio nazionale all’articolo 117).

Come assicurare che le risorse scarse prodotte a livello nazionale siano equamente distribuite su tutto il territorio (il sistema tributario non prevede distinzioni regionali, infatti, scrive l’articolo 53, “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, mentre l’articolo 119 impone la costituzione di un fondo perequativo “per i territori con minore capacità fiscale per abitante”).
Come garantire l’unità ed indivisibilità della Repubblica che si pone a fondamento e presupposto stesso del riconoscimento e promozione della autonomia locale (così l’articolo 5). A nulla vale scrivere che “nessuno vuole aggredire l’unità nazionale, nessuno vuole secessioni”, poiché non è sulle intenzioni dei protagonisti che si giudica una riforma, ma è sulla realtà dei fatti.

È vero, come scrivono i due presidenti, che “la Costituzione permette di poter realizzare una autonomia ‘differenziata’ proprio perché riconosce le diversità che ci sono fra zone del Paese”. Ciò che però sembra non venga compreso è che non è costituzionalmente ammissibile che alcune parti del territorio si preoccupino solo della “efficienza” dei propri servizi sociali a scapito della sopravvivenza di quella degli altri.

Un principio supremo lo impedisce, quello di solidarietà, che la nostra Costituzione impone come “dovere inderogabile” della Repubblica all’articolo 2. È per questo che l’idea secondo la quale i risparmi prodotti per effetto della virtuosità dell’amministratore debbano restare sul territorio, non è poi così scontato. Si chiedono i due presidenti: “Se l’obiettivo non fosse questo, perché dovremmo impegnarci ad essere efficienti?”. La risposta potrebbe essere: per garantire l’unità e indivisibilità della Repubblica, il principio di solidarietà e l’eguaglianza sostanziale tra i cittadini.

Ma forse è questa una risposta troppo complessa perché possa essere compresa da chi non concepisce vi sia un’altra possibilità oltre a quella di accettare la volontà dei popoli veneti e lombardi per poter “scrivere una pagina di storia di questa Repubblica”. Si può tuttavia anche essere d’accordo con la conclusione: in tal caso la storia della Repubblica muterebbe, in peggio.

Il anifesto, 23 luglio 2019

Da libertaegiustizia


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