Ricordando Berlinguer

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Il suo rapporto con noi de L’Unità che scrivevamo i resoconti dei suoi interventi. Trasmetteva fiducia alla gente semplice e onesta

Di Alessandro Cardulli

I ricordi si affollano, confondo le date, gli eventi. Sono uno di quei giornalisti usa e getta. Non conservo appunti, non colleziono agende dalle quali poi traggo un libro che verrà presentato in qualche dibattito televisivo, in cui sempre più accanto alla parola giornalista compare anche quella di scrittore. Quasi che il giornalismo sia una categoria minore. In effetti spesso lo è, quando ascolto colleghi che strillano, l’un contro l’altro armato, tutti armati contro il mal capitato interlocutore. Ce ne è uno in particolare, campione di strillo. Verrebbe da dire strillonaggio. Anche lui un giornalista scrittore. Ci ho pensato a lungo prima di scrivere un ricordo di Enrico Berlinguer a trentacinque anni dalla sua scomparsa. Sono andato a rileggere alcuni suoi interventi, le relazioni al Comitato centrale cui veniva affidata la stesura a noi, giornalisti dell’Unità. Lavoro non facile .  E poi gli interventi nel dibattito.  Lavoro non facile. A  volte parlava a braccio, specie in iniziative pubbliche o quando concludeva qualche dibattito. In queste occasioni sottoponevano la sintesi dell’intervento che l’Unità avrebbe pubblicato alla sua attenzione, sotto lo sguardo vigile di Tonino Tatò, l’uomo macchina della comunicazione del segretario, o meglio il “consigliere”, l’amico di Berlinguer.

Sono andato a recuperare nei miei ricordi mentali il Berlinguer che ho conosciuto, che ho avuto l’onore, sì l’onore di “resocontare”, di tradurre in scritto, articoli, interventi da lui pronunciati. Devo dire che mi sono commosso. I ricordi si affollano nella mia mente. Rivivo alcuni momenti. Uno in particolare.  Attende a casa, insieme a Tatò, che gli consegni il testo dell’intervento , o meglio la sintesi che l’Unità pubblicherà. Arrivo a casa sua, nella stanza in cui mi accoglie c’è anche una “carrozzina”, con dentro una bambina, non mi ricordo chi fosse delle sue figlie. Berlinguer legge e rilegge. La bambina piange. La madre, se ben ricordo era scesa in farmacia. Cerco di calmarla, Enrico continua imperterrito a leggere. Ogni tanto corregge ma prima ti dice “penso che andrebbe meglio così, che ne pensi?”; la domanda è retorica. Certo che va meglio così.  A L’Unità teneva moltissimo. A volte arrivava al giornale, quasi si scusava, diceva che il nostro lavoro era importante, fondamentale per il Pci. In particolare nel corso delle campagne elettorali, non mancava di fare una visita al giornale. Ricordo che una volta è rimasto molto colpito dal fatto che il lavoro per noi iniziava al mattino presto quando si doveva tirare un milione e più di copie.

Era fiero de L’Unità, dei giornalisti, dei tipografi, di tutti coloro che lavorano per questo  grande giornale che sentivamo come “nostro” non solo perché ci dava lavoro, ma portava il nostro lavoro, il nostro pensiero fino a un milione di persone nelle giornate di tiratura speciale. Pensava anche al costo del giornale, un giornale pagato dai lavoratori che lo acquistavano e lo diffondevano. Ricordo che una volta, forse alla Conferenza operaia tenuta a Genova, o a Torino, dovevamo sintetizzare il suo intervento. Ci aveva dato appuntamento, a me e a Bruno Ugolini che dovevamo portargli  la sintesi del suo intervento, al suo albergo, non più tardi delle ore 16. Noi prima abbiamo pranzato poi ci siamo messi a scrivere ed il tempo è passato. Siamo arrivati in ritardo. Malgrado la giornata fosse fredda, con un vento che ti sferzava il volto, Berlinguer era  all’esterno dell’albergo insieme a Tonino Tatò. Ci ha guardati male. Ci ha detto: se facciamo tardi in tipografia scatta lo straordinario, per di più con il festivo. Sono soldi che pagano i lavoratori che comprano l’Unità. Ci siamo sentiti  quasi fossimo gli affossatori del giornale. Quando ci siamo lasciati ci ha detto, sorridendo: “Avete fatto un buon lavoro. Il Partito vi ringrazia”.

Un ultimo episodio mi piace ricordare. I giornalisti stanno cercando Berlinguer a conclusione di un suo intervento. Siamo in un palazzetto dello Sport, forse a Torino. Chiedono a me e ad altri colleghi dell’Unità, se sappiamo dove  possono trovare Berlinguer, se è rientrato in albergo. Diciamo loro che con lui abbiamo appuntamento in una stanzetta del Palazzetto per scrivere la sintesi del suo intervento. Qualcosa da bere e qualche panino. Se volevano, abbiamo scherzato, potevano accomodarsi, ma il pranzo era modesto

Frugando nella memoria mi vengono a mente tanti episodi che si potrebbero ricordare come quando, mi pare alla Festa dell’Unità a Napoli, era stata montata una linotype dell’Unità. I tipografi gli spiegavano come funzionava, quale era il loro lavoro,   poi davano conto del passaggio alla rotativa, insomma  erano orgogliosi di essere i “costruttori” dell’Unità e volevano farlo sapere al segretario del Pci che ben conosceva quanto grande fosse l’impegno dei tipografi per far arrivare in tutta Italia il giornale di Gramsci.

Credo che meglio di tante parole per raccontare chi era Berlinguer vale il ricordo di Alberto Menichelli che per quindici anni è stato il suo autista. Scrive un prezioso libretto dal titolo, appunto “In auto con Berliguer”, da quale abbiamo tratto il brano seguente sulle ultime ore del segretario del Pci a Padova, quel 7 giugno 1984.

Arrivammo nella piazza gremita di folla. Aveva da poco smesso di piovere e faceva un po’ freddino. Berlinguer tra l’entusiasmo della gente iniziò a parlare e Tatò calcolò che il comizio sarebbe finito giusto in tempo per arrivare a Milano, la tappa successiva. Ad un certo punto un compagno preoccupatissimo ci disse “presto salite sul palco, Berlinguer sta male”. Salimmo di corsa sul palco e Berlinguer veramente smozzicava le parole, saltava diverse parti del discorso e faceva lunghe pause. La gente capì subito il suo disagio e lo implorava di smettere, ma lui, imperterrito, andava avanti si vedeva che stava facendo uno sforzo tremendo. Anche io e Tatò cercammo di fermarlo ma lui quasi indispettito continuava “compagne e compagni seguite il lavoro strada per strada…”. A questo punto il grido di tutta la piazza gli chiese di fermarsi, e una signora da sotto il palco gli urlò: “Enrico smetti, ti vogliamo bene”. Berlinguer si girò verso di me sussurrandomi che aveva freddo. Gli misi il mio impermeabile sulle spalle e scendemmo dal palco per andare in albergo.

Salimmo in camera, si stese sul letto e si tolse le scarpe. Aveva conati di vomito, diceva che era la reazione alla cena di Genova. Con noi c’erano Tatò e un compagno medico che lo assisteva. Berlinguer si assopì e io mi sentii sollevato. E pensai: “meno male, ora si riposa un po’ e passa tutto”. A questo punto il dottore chiamò l’ospedale spiegando che si trattava di un’urgenza, parlò di codice rosso e chiese un’ambulanza. Io preoccupato domandai a Tatò: “ a Tonì ma questo che fa?”. A rispondermi non fu Tatò ma il dottore: “Berlinguer è gravissimo, ho già allertato la sala operatoria, è in coma”. Per dimostrarmelo prese uno spillo e lo punse sotto la pianta del piede senza ottenere alcuna reazione. E in quel momento realizzai che “la cena di Genova” furono le ultime parole pronunciate da Berlinguer.

…L’agonia di Berlinguer durò ancora per alcuni giorni, dai bollettini medici non si registrava alcun miglioramento. La nostra speranza di rivederlo vivo era a quel punto legata a un filo sottilissimo. Ma purtroppo l’11 giugno il filo si spezzò…

…Quello di Berlinguer fu il funerale più grande d’Italia. Nessun personaggio al termine dei suoi giorni è stato mai accompagnato da tanta gente eppure, Berlinguer, era il capo della sinistra che non aveva mai governato…

Da jobsnews


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