Le (non) dimissioni di Di Maio

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In un qualsiasi “normale” partito politico che perda rovinosamente le elezioni, il responsabile di quel partito rassegna immediatamente le proprie dimissioni, soprattutto se, come avvenuto per il M5S, quel “capo politico” – che assomma in sé impropriamente illimitati poteri che gli derivano da plurime cariche partitiche e di governo – è riuscito ad ottenere l’invidiabile record di far perdere al suo partito, in meno di un anno, la metà dei voti (circa 6 milioni di voti in meno portandolo dal 32% al 17%). Ora, questo ambiziosissimo “capo politico”, dal supponente sorrisetto stampato permanentemente sul viso – responsabile per avere, nell’azione di governo, tradito i valori fondanti del “Movimento” (nessuna lotta all’evasione fiscale, anzi approvazione, con la Lega, di condoni ipocritamente spacciati per “pace fiscale”, nessuna eliminazione della politica dalla RAI, anzi sfrenata occupazione, con la Lega, dell’Ente radio-televisivo e di posti di sottogoverno e nelle aziende pubbliche, ecc.) – non intende dimettersi. Ha, infatti, dichiarato: “chiederò il voto sulla piattaforma Rousseau. Io non mi faccio processare. Devono essere gli iscritti a dirmi se restare o no alla guida del Movimento”.

Evidentemente, egli ripone fondate speranze sulla “piattaforma Rousseau” che già due anni orsono gli consentì, con una votazione farsa, l’elezione a “capo politico” al quale il nuovo Statuto M5S del 2017 – (di impostazione Casaleggio-Di Maio-Lanzalone, sì proprio quell’avvocato arrestato per le tangenti dello stadio di Roma) – conferiva poteri assoluti (in contrasto con qualsiasi forma di democrazia interna).

Si tratta di quella “piattaforma Rousseau”, duramente censurata e sanzionata dal Garante della privacy il quale ha accertato che quel sistema operativo non solo è obsoleto, ma è del tutto inadeguato a garantire la segretezza e la sicurezza, con pericolo di manipolazione, delle votazioni promosse dal M5S.

A fronte di questo tentativo che consentirebbe al Di Maio di continuare a guidare il Movimento certamente portandolo alla disintegrazione, si pone la sensata proposta del Presidente della Commissione Antimafia sen. Nicola Morra: “troviamo cinque o più componenti del M5S, scelti con tutti gli attivisti. Serve collegialità”. In effetti, si tratta di quella stessa proposta che, già nel dicembre del 2018, partì dalle colonne di questo giornale (articolo dell’11 dicembre 2018) che aveva previsto il disastro a cui andava incontro il M5S (e l’Italia) per essersi il Di Maio – che aveva fermamente voluto l’insana e innaturale alleanza con un partito xenofobo, razzista, con tendenze autoritarie – dimostrato incapace di fronteggiare le strategie spregiudicate della Lega e del suo “Capitano” Salvini che, da vero “dominus” del governo e da potente ministro degli Interni, stava consentendo al suo partito una impressionante “escalation”. Si era, così, da parte di questo giornale, prospettata l’istituzione di un direttorio composto di quei militanti che continuavano a riconoscersi nei valori del Movimento e che, ridando fiducia alla base e agli eletti, appoggiasse la linea del Presidente della Camera che si poneva come argine allo strapotere del Salvini.

Naturalmente la nostra proposta non venne presa in alcuna considerazione, così pervenendosi al disastro del 26 maggio con la Lega al 34% e il M5S al 17%. Ma, oggi il direttorio non basta, è necessario che i parlamentari del M5S – blindati dal “Capo politico” addirittura al punto da non poter proporre emendamenti ai testi governativi, e ai quali, in quanto depositari della sovranità popolare, spetta l’ultima parola – di riappropriarsi delle loro prerogative. Sarà, così, possibile uscire dal ristretto angolo cui sono stati rinchiusi dall’ambiziosissimo “Capo politico” che consentirebbe loro di non approvare: a) il decreto sicurezza bis, palesemente incostituzionale e che viola i diritti umani; b) il decreto “sblocca cantieri” (che altro non è se non un’autostrada per la corruzione e le infiltrazioni mafiose negli appalti; c) la legge sulle autonomie regionali che creerebbe gravi diseguaglianze tra le Regioni. Si provocherebbe, così, una crisi di governo che rompe l’insano patto con i leghisti e rende possibile stringere un’alleanza con il partito democratico con il quale, ancora oggi, è possibile formare una maggioranza parlamentare per portare avanti fino al 2023 una seria politica di ordine economico e sociale. E se il PD dovesse rifiutare tale alleanza (anche sotto l’influenza di un ex “finto rottamatore” che, a sua volta, ha portato il proprio partito alla disfatta), si assumerebbe la grave responsabilità di nuove prossime elezioni che porterebbero sicuramente alla vittoria e alla maggioranza parlamentare dei partiti di destra con serio pericolo per i valori della Costituzione e della nostra democrazia ed, in particolare, per l’indipendenza della magistratura.


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