A Trieste era proibito parlare. Boris Pahor e il nazifascismo

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Il tema delle foibe è di questi tempi molto spinoso, anche a sinistra. Se volete “appassionarvi” all’argomento, andando al di là dell’apparente freddezza degli studi storici, non c’è niente di meglio che un punto di vista letterario non italico, diverso e obliquo al nostro come quello di un narratore eccezionale, Boris Pahor, il maggiore scrittore sloveno vivente. “Eia, eia, eia, alalà! Gridavano come dei forsennati e tutt’intorno c’era sempre più gente. Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano ad ogni finestra (…) Evka e Branko però erano piccoli e non capivano quello che diceva la gente. Sapevano che bruciava la Casa della cultura slovena e che non era giusto che i cattivi fascisti l’avessero incendiata, ma non si spiegavano perché i soldati fossero usciti dalla caserma in piazza Oberdan se ora se ne restavano lì a guardare.” Sono parole tratte da Il rogo nel porto (pp.224, euro13, Zandonai, 2008), libro oggi fuori catalogo, fondante di tutta la produzione narrativa di Pahor.

Il destino della gente slovena e le suggestioni di una città come Trieste si intrecciano in modo indissolubile con la storia del Novecento. Ecco così scorrere davanti ai nostri occhi le vicissitudini degli sloveni d’Italia che hanno inizio con l’incendio della Narodni dom, la Casa della cultura slovena, bruciata il 13 luglio 1920 dalle camicie nere. La violenza fascista, l’umiliazione di un popolo, l’italianizzazione forzata, insomma tutto quello che prelude alle deportazioni e ai campi di sterminio non ci vengono risparmiate, esperienze che lo stesso autore vivrà sulla sua pelle narrandole poi nel capolavoro Necropoli. I tredici racconti sono stati scritti in un lungo arco di tempo – poi tradotti dallo sloveno o riscritti dall’autore stesso in italiano – e sono divisi in tre parti per ripercorrere i momenti della vita di Pahor: l’infanzia, l’esperienza del lager e il ritorno nella sua Trieste. Gli edifici, i caffè, le piazze e le strade, i colori e i paesaggi fatti di venti piovosi, riflessi di azzurro mare e di bianche rocce carsiche sono rievocati quasi con poetica nostalgia, a ricordare come fosse cosmopolita e pacifica la città.

Una Trieste che ritroviamo protagonista anche in Qui è proibito parlare (pp.397 euro 19, Fazi, 2009), romanzo scritto nel 1963. Pahor vi narra la storia della giovane Ema, originaria del Carso e dal passato familiare doloroso, e del suo incontro a Trieste con il più maturo Danilo, con cui si lega in un’intensa storia d’amore, ma soprattutto nel comune intento di lottare contro le brutalità fasciste nella difesa della loro cultura. L’ultracentenario Pahor – nato il 26 agosto 1913 a Trieste – ha sempre affiancato all’insegnamento della letteratura italiana nelle scuole medie superiori slovene della sua città la scrittura di forte impegno civile, tra l’orrore dei campi di concentramento nazisti, dove fu deportato per aver collaborato con la resistenza, e la denuncia delle violenze compiute dal fascismo sul suo popolo tra la complicità e l’indifferenza di tanti italiani. Troppi. Boris Pahor è un fine scrittore, uno sloveno d’Italia che bisogna assolutamente conoscere, che possiede una lingua efficace nel descrivere la sofferenza di quell’angolo estremo della Penisola. Scrisse Ferdinando Camon anni fa su Tuttolibri all’uscita de Il rogo nel porto: “Io sono italiano e ho appena finito di leggere un libro inobliabile, contro gli italiani fascisti che a Trieste e in Istria hanno fatto cose immonde, che noi oggi, loro discendenti, non sappiamo più.” Cercate i suoi libri, ci consentono di guardarci dentro e capire che noi italiani non siamo stati sempre “brava gente”.


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