L’assedio

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di Giovanni Bianconi

assedio

Einaudi

Che Giovanni Falcone abbia cominciato a morire prima di essere ucciso l’hanno detto in tanti. Testimoni attendibili e diretti, come Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto. Ma trovare il momento esatto in cui è cominciato il percorso irreversibile e omicida culminato nella bomba di Capaci non è semplice né scontato, nonostante gli indizi e gli avvenimenti citati dagli stessi testimoni “eccellenti”, che ne furono anche protagonisti.
Per questo credo che abbia ancora un senso continuare a scavare nella vita, oltre che intorno alla morte, del magistrato antimafia divenuto il simbolo della lotta a Cosa nostra, in Italia e nel mondo; e già questo non aiuta, perché quando un uomo che svolge o cerca di svolgere semplicemente il proprio lavoro, diventa un eroe e poi un’icona, si tende a dimenticare tutto il resto.
Tutti ne parlano, tutti lo invocano e lo espongono come un vessillo, ma pochi ricordano che cosa abbia realmente detto e fatto; che cosa abbia dovuto subire quando era vivo e vegeto e tentava di portare avanti idee e realizzare progetti. Per proseguire nella battaglia contro la mafia e per salvarsi la vita, giacché da un certo momento in poi i due obiettivi hanno cominciato a coincidere. Non gli è riuscito, e il paradosso è che solo dopo che Falcone è stato tolto di mezzo dagli assassini agli ordini di Totò Riina, ciò che lui stesso aveva immaginato e programmato ha cominciato a realizzarsi. Ma senza di lui, e questo ha necessariamente influito sull’incisività dei nuovi strumenti e i risultati conseguiti. A cominciare dalla Superprocura antimafia.
“L’assedio – Troppi nemici per Giovanni Falcone”, prova a ripercorrere soprattutto le umiliazioni e le sconfitte patite dal magistrato che del contrasto a Cosa nostra aveva fatto una missione, dopo averne scoperto per primo i segreti e intravisto gli intrecci più inquietanti e inestricabili. Affronti subiti uno dopo l’altro, come fossero anelli di una stessa catena, sebbene alternate a successi importanti che probabilmente, per evitare che portassero a risultati ulteriori e magari definitivi, dovevano essere immediatamente ricacciati indietro da una mortificazione o uno schizzo di fango. Una partita a scacchi, con mosse e contromosse continue, fino allo smacco finale.
Dopo l’avvio del lavoro del pool messo in piedi da Rocco Chinnici, l’autobomba che fece saltare in aria il consigliere istruttore nel luglio 1983 fu un chiaro avviso che certi santuari dovevano rimanere intoccabili; dopo la collaborazione di Tommaso Buscetta e l’indagine sfociata nel maxi-processo, l’estate di sangue del 1985 con gli omicidi di Montana, Cassarà e Antiochia doveva costituire un ulteriore avvertimento per i magistrati che si apprestavano a mandare alla sbarra centinaia di boss e gregari. E fin qui siamo nella dinamica delle azioni e reazione tra Stato e Antistato (così qualche esponente delle istituzioni qualificò la mafia, cercando di tracciare un netto confine tra le due entità che invece era molto labile, a volte inesistente). Poi le reazioni cominciarono a non essere più esclusiva degli “uomini d’onore”, ma trovarono utili sponde tra gli uomini delle istituzioni.
Dopo le condanne ottenute nel “maxi” arrivò la bocciatura di Falcone come nuovo consigliere istruttore, da parte del Consiglio superiore della magistratura (e pure i killer di Cosa nostra non rimasero con le mani in mano sparando, per la prima volta, su toghe chiamate a giudicare e non solo a indagare, come Saetta e Livatino: un messaggio che secondo Falcone arrivò a destinazione con la riduzione delle condanne nell’appello del “maxi”); dopo la richiesta dello stesso magistrato-simbolo a diventare procuratore aggiunto giunsero le lettere calunniose del Corvo, che precedettero la boma dell’Addaura. Poi ci fu la candidatura al Csm con conseguente mancata elezione, e dopo il trasferimento al ministero della Giustizia  (dove Falcone aveva cominciato a realizzare il progetto delle Procure distrettuali e della Direzione nazionale antimafia, insieme alla Dia e altro norme innovative) ecco le accuse sulle “prove nascoste nei cassetti” e il relativo “processo” davanti al Csm.
Fino all’ultima sfida: il lavoro sottotraccia di Falcone per evitare che il maxi-processo andasse in fumo in Cassazione, e il successo ottenuto con la conferma delle condanne e del “teorema Buscetta”, a cui seguirono l’annuncio di una nuova bocciatura da parte del Csm, stavolta per la guida della Superprocura, e l’omicidio di Salvo Lima ad opera dei sicari corleonesi. Anticamera della strage di Capaci.
Questa è la storia che conosciamo, ma che non tutti conoscono, a cui si dovranno aggiungere altri frammenti ancora nascosti, sconosciuti o conosciuti a troppo pochi.
Una storia ancora incompleta nella quale si annidano dettagli che confermano l’isolamento a cui fu costretto quel magistrato che non voleva fermarsi ai traguardi raggiunti, e indizi di ostilità e emarginazioni che hanno reso più agevole – consapevolmente o meno – il compito dei suoi assassini. Perché un nemico si può contrastare, e non è detto che ci si riesca; ma quando sono tanti, troppi come nel caso di Giovanni Falcone, e non solo dall’altra parte della barricata, salvarsi diventa pressoché impossibile.

Da mafie


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