Una sentenza per il nostro amico A.

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di Lucio Luca

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Lucio Luca, giornalista di Repubblica e autore del libro “L’altro giorno ho fatto quarant’anni” (Laurana editore)

Alessandro si è tolto la vita il 15 marzo del 2013. Tre giorni prima aveva compiuto 40 anni. Il 14 settembre del 2016 il Tribunale di Cosenza ha condannato a 4 mesi di reclusione per violenza privata il suo editore. Una sentenza che rappresenta un precedente storico nei rapporti tra giornalisti e datori di lavoro.
Nelle motivazioni del verdetto, i giudici scrivono che l’imputato ha costretto Alessandro “mediante la minaccia di un male ingiusto, dapprima a sottoscrivere una lettera di dimissioni dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, rinunciando a ogni pretesa e vertenza giudiziaria, e poi a sottoscrivere un contratto di lavoro a tempo determinato prospettandogli lo stesso come unica alternativa al licenziamento”. Alessandro, inoltre, sarebbe stato obbligato a “rinunciare al preavviso e all’indennità sostitutiva prevista dal contratto dei giornalisti”.
I giudici entrano pesantemente nel dettaglio: “A fronte della previsione di un orario di lavoro di 30 ore settimanali, similmente a quanto previsto nel contratto precedente, veniva prevista la corresponsione di 5 euro mensili forfettari (5 euro…) per le prestazioni di lavoro straordinario superiore alle sei ore, notturno, domenicale e festivo”.
C’è poi il capitolo dei trasferimenti, spesso l’arma di punizione usata dall’editore per allontanare — o spingere alle dimissioni — i giornalisti più scomodi. “I trasferimenti, a differenza del precedente contratto, venivano regolamentati in deroga al contratto collettivo di lavoro ovvero senza rimborso ulteriore rispetto all’indennità di 200 euro dovuta solo se il trasferimento avesse riguardato una sede di destinazione più lontana di 70 chilometri”. Insomma, spiegano i giudici, i giornalisti potevano essere deportati “a costo zero per la società”.
I diari di Alessandro, acquisiti dal Tribunale, sono stati decisivi per la condanna del suo editore: “Anche perché redatti in un periodo in cui non poteva immaginare minimamente che sarebbero stati usati in un’aula di giustizia”. E dunque nessun dubbio davanti a pagine come quelle del 15 febbraio 2012, quando il giornalista scrive: “Mi vogliono trasferire a Rossano, ste merde…”. O dieci giorni dopo: “Ennesima giornataccia, ho una brutta sensazione, l’usuraio (riferimento chiaro a chi ha avuto una condanna definitiva per il reato di usura, precisano i giudici) vuole che approviamo un documento con cui in pratica ci tagliano lo stipendio e autorizzano trasferimenti che lo strozzino utilizzerà per licenziare”. Senza contare la disperazione del 31 marzo, quando Alessandro appunta: “Sono diventato precario, ho subito un’estorsione, me la pagheranno. È stato umiliante… è un fatto che sono fuori o comunque sotto ricatto”.
Alessandro, insomma, “aveva accettato in quanto temeva di non trovare più lavoro, sua moglie lo avrebbe considerato un fallito e non avrebbe potuto più vedere la figlia”. E poi c’era sempre quel mutuo da pagare, davanti al quale non poteva che firmare persino “un’estorsione”.
Da quel momento per lui era iniziato il conto alla rovescia: “Il nuovo contratto a tempo determinato gli dava un senso di ansia di stress perché era a scadenza”, ricordano i giudici citando le dichiarazioni dei testimoni. “Era chiaro a tutti che chi non firmava sarebbe stato fuori…”.
Quindi la spiegazione della sentenza nel dettaglio: “Nel caso in esame è configurabile il reato di violenza privata atteso che il comportamento posto in essere dall’imputato ha limitato la libertà di autodeterminazione della vittima. L’accettazione delle condizioni contrattuali peggiorative è stato il risultato di una situazione di costrizione. E pur in assenza di una minaccia espressa o esplicita, era logico che la mancata accettazione di dette condizioni avrebbe comportato la cessazione della sua attività lavorativa presso il giornale e che, pertanto era idonea a suscitare in Alessandro la preoccupazione di un danno ingiusto”.
I giudici sottolineano come la condotta dell’imputato ha posto concretamente il giornalista in uno stato di soggezione, parlano di “imposizione unilaterale accettata dal lavoratore a causa della sua debolezza contrattuale” e concludono che, in pratica, “all’accordo non si giunse liberamente ma perché Alessandro fu moralmente coartato”. Infine, ammoniscono, non si può certo tirar fuori il solito argomento dello stato di salute dell’editoria “non essendo giustificabile la commissione di reati per risolvere una crisi aziendale”.
La Procura ha presentato ricorso in appello.
(15. fine)

Da mafie


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