Qualcuno leggerà il mio diario

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di Lucio Luca

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Lucio Luca, giornalista di Repubblica e autore del libro “L’altro giorno ho fatto quarant’anni” (Laurana editore)

Con mia moglie è finita. Ho preso le mie cose e me ne sono andato. I dischi degli U2 e dei Deep Purple, i libri che ho amato di più, le leggende celtiche e le fiabe del Nord Europa, Palaniuk e Lilin, i saggi di Valerio Massimo Manfredi. Un po’ di jeans, due o tre giacche, le camicie che mi servono per qualche settimana. Alcune foto della bimba. E la pistola per sparare al poligono. Nient’altro.
Prima di andare via le ho detto che mi serve qualche giorno per pensare. Ma non mi faccio illusioni, tra noi abbiamo scavato un abisso, sarà impossibile tornare indietro. Di una cosa sono sicuro: in quella casa non ci tornerò mai più.
Ai miei genitori, invece, ho raccontato che lei e la bambina andranno per un po’ da alcuni parenti, che volevo tornare ragazzo e che per questo mi ero ripreso provvisoriamente la mia vecchia stanzetta. Nessun cenno ai guai del giornale: mio padre non si è mai ripreso del tutto da quando mi era arrivata in redazione la lettera di minacce. Non volevo dargli altre preoccupazioni. E volevo evitargli il dispiacere di sapere che suo figlio, dopo vent’anni, si era guardato allo specchio e aveva capito che la sua vita era tutta sbagliata.
Ho creduto in un mestiere, l’ho idealizzato, l’ho trasformato in una battaglia quotidiana sacrificando tutti gli affetti, la mia splendida moglie, una figlia fantastica, gli amici più cari. Sono uscito di casa la mattina all’alba e sono tornato a notte fonda, ogni santo giorno che Dio mandava in terra, perché pensavo che il giornalismo fosse una missione, qualcosa di cui il mondo aveva bisogno. Come la bella addormentata nel bosco, mi ero risvegliato da un lungo sonno e avevo capito che mentre mi facevo i miei viaggi, mi stavano mettendo un cappio al collo. E che adesso non avevo più la forza di toglierlo.
“La decisione di mettere fine alla mia sofferenza si fa sempre più consapevole. Del lavoro non parlo più, non ho alcuna colpa. Ma non voglio vivere senza la mia famiglia. Se uno la perde ha un vuoto dentro. Io non ci riesco a colmarlo. Ci provo ma non ci riesco”.
Magari un giorno qualcuno lo leggerà il diario e capirà il mio inferno. Dio, come sono potuto arrivare a questo punto?
La notte non chiudo occhio. é come se avessi un coltello piantato nella testa, mi imbottisco di pillole che non servono a niente. Guardo un po’ di tennis in televisione, le vecchie finali del Roland Garros. Ogni tanto esco in giardino per fumare. é già marzo, fra poco sarà primavera, ma qui in collina di notte fa ancora un freddo cane. Il gelo nelle ossa mi fa stare bene, mi svuota il cervello, non mi fa pensare. Se penso è peggio, se penso è la fine.
(13.continua)


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