Mussalvini e la Dimaieutica salveranno l’Italia?

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Da Wikipedia: “Danilo Dolci (Sesana, oggi Slovenia, 1924 – Trappeto, Sicilia Occidentale, 1997), sociologo, poeta, educatore, attivista della non violenza, fu detto il Gandhi italiano.  Alla base del suo lavoro sociale e educativo c’è il metodo maieutico: piuttosto che dispensare verità preconfezionate ritiene che nessun vero cambiamento possa prescindere dal coinvolgimento e dalla partecipazione diretta degli interessati. La sua idea di progresso valorizza la cultura e le competenze locali…”.

Oggi c’è la Dimaieutica (copyright Massimo  Gramellini) di governo, che è tutt’altra cosa. A cominciare dalla cultura che non è più considerata un valore, come le competenze, tanto meno la partecipazione diretta degli interessati, cioè gli amministrati, i cittadini, quei sessanta milioni di italiani che a sentire Mussalvini (copyright Pierre Moscovici) hanno creato con i loro voti questo “governo del cambiamento”.

“Otto milioni di baionette” annunciava il Duce, quello vero, quando si apprestava a portare l’Italia in guerra. Quando dai balconi del potere si parla di numeri, spesso non ci s’indovina: oggi piazza Venezia e piazza Colonna sono pericolosamente vicine. L’ha insinuato quel commissario  europeo particolarmente acido: “In Italia oggi ci sono tanti piccoli Mussolini”. L’allusione è scoperta.

Lo spread sale? “Me ne frego!” tuona Mussalvini, e prosegue: l’Europa ci bacchetta? “Noi tireremo diritto”. I migranti continuano ad arrivare? “Li fermeremo sul bagnasciuga!”. Tre slogan (oggi sarebbero dei tweet) che furono lanciati da un balcone sulla testa di una folla oceanica, (oggi impersonata dalla Rete) dal Duce, quello vero, che mai avrebbe pensato di avere un giorno un tardo epigono lombardo che gli avrebbe copiato le battute. Era stato lui a dire che “governare gli italiani non è impossibile, è inutile”. E anche se all’epoca si diceva “Il Duce ha sempre ragione”, quella volta ha avuto torto, perché governare gli italiani deve essere considerato un privilegio, sempre che se ne sia capaci.

Un giorno Silvio Berlusconi che si sentiva perseguitato dai magistrati se ne uscì: “Ma come si permettono questi signori, che al massimo hanno vinto un concorso, a mettere il naso nei miei affari?”. E quando altri magistrati, non meno imprudenti, hanno messo il naso nei conti poco puliti della Lega, Mussalvini si è chiesto: ”Ma questi signori sono stati eletti?” per dire che non hanno nessun titolo per amministrare la giustizia, come la Banca d’Italia, neanche lei eletta da nessuno, non potrebbe tenere i conti nazionali. Stesso trattamento per il presidente dell’INPS, Boeri: “Si dimetta – intima Mussalvini – e si presenti candidato alle elezioni”.

In questi primi mesi di governo giallo-verde, la Dimaieutica non sembra aver dato i risultati sperati.  L’economia ristagna, la borsa scende, e con lei il valore dei risparmi che gli italiani hanno raccolto in una misura record rispetto agli altri popoli, non solo europei. Mettendo al sicuro i propri soldi sotto il metaforico materasso (buoni del tesoro, polizze vita e soprattutto il mattone di casa) i nostri connazionali non nascondono di nutrire nei confronti  dei governanti di turno più d’un sospetto sui bei programmi che annunciano per le finanze pubbliche un luminoso avvenire.  Un particolare che dovrebbe far riflettere: l’allarme dei padri che si sentono minacciati nella pensione, lo sconforto dei figli che non trovano lavoro e lo cercano all’estero, le fumose strategie degli imprenditori ai quali farebbero comodo un po’ di quel disperatili “fermati sul bagnasciuga” per non essere indotti a delocalizzare aziende sempre più in difficoltà. Segnali di fumo da non sottovalutare. E il primo a farlo dovrebbe essere il presidente del consiglio “vice di due vicepresidenti” (copyright di Vittorio Sgarbi), ma su questo anche lui, come spesso, tace.

E’ un’altra Italia quella viene dopo il 4 marzo: quando il Morandi era un cantante amatissimo e non un ponte tibetano sospeso su un abisso di incompetenze; quando Grillo era solo un geniale attore comico e non un fuggevole arruffapopolo; quando di Matteo ce n’erano soltanto due, uno con la faccia simpatica e una televisiva tonaca, l’altro con la parlantina sciolta e la “c” aspirata, e non si sentiva il bisogno di un terzo; quando Bossi il Vecchio dalla milanese via Bellerio salmodiava contro “Roma ladrona” e non guardava meglio in casa sua; quando un giovane, azzimato avvocato non sedeva ancora a Palazzo Chigi ma un attempato, scicchissimo Avvocato con la “A” maiuscola regnava a Villar Perosa. Era un’altra Italia.

Decisamente, questo governo pentaleghista è nato sotto una cattiva stella: appena eletto un’esplosione a Bologna ha fatto crollare un viadotto sull’autostrada (ricostruito in soli 55 giorni dalla dispettosissima società concessionaria, che non ha concesso al governo nemmeno l’onore di tagliare un nastro inaugurale a fine dei celerissimi lavori); la morte improvvisa di Sergio Marchionne che ha bruscamente decapitato la FCA, con gravi conseguenze anche per la nostra Fiat; il crollo del ponte di Genova che sta  rischiando di trascinare sul greto  del Polcevera anche qualche esponente della classe politica al potere;  la strage di imprudenti gitanti nelle gole di un torrente pugliese con undici morti; è di pochi giorni fa un terremoto nel Catanese. La sorte sembra accanirsi contro la triade di governo, la cui  componente partenopea starà facendo sicuramente gli scongiuri.  In verità non è toccato solo a loro: ben più disastrosi terremoti hanno funestato i loro predecessori. Ma stavolta, forse si esagera.

Ma che importa? Il potere  logora, sì, “chi non  ce l’ha” precisava Andreotti Belzebù. Quindi, qualunque altra  cosa accada, statene certi, nessuno si darà per vinto.  Il “governo del cambiamento” non cambierà nulla, e con gattopardesca fermezza  porterà avanti la sua Dimaieutica, peraltro pienamente  condivisa dall’immarcescibile Mussalvini. E per l’Italia sarà quel che sarà.


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