Lindsay e le metamorfosi. Quel suo poetico dormiveglia….

0 0

A una settimana (circa) dal defilato, ineffabile addio di Lindsay Kemp ci capita (per caso?) di leggere un  pensiero del poeta Gian Pio Torricelli che, parafrasandolo, enuncia una verità banale ma sferzante, se non perfida. “Durante il sonno dei sogni accadono cose che il giorno si prende cura di cancellare”. A fin di bene.  Immediato l’accostamento emozionale e mnemonico con il teatro, con l’arte soffusa e porporina del caro Lindsay: che, a quel che credo, smentiscono come il marameo d’un bambino una concezione dell’inconscio turpe e irriferibile. Perché? Perché tutta la vita umana e professionale del coreografo, regista, interprete britannico è la negazione incorporea ma tangibile dell’ appressamento olistico -“timorato e pavido”- con i vaghi fantasmi  di nostri territori onirici. Aventi nel teatro l’estro, le difese immunitarie, la panacea terapeutica di  ogni nostra angoscia, isteria, cedimento al panico.

A quali condizioni? A condizione che- come fu per la lanterna magica rispetto al cinema- lo spazio scenico, possibilmente liberato dalla sua quarta parete, diventi una stanza delle meraviglie dove orchi e falene, ermafroditi e sciantose, crisalidi e ‘machi’ in crisi di identità possano convivere senza reciproco fastidio: se non in arcadica armonia, almeno nel reciproco rispetto delle loro differenze. E nella consapevolezza che sia l’inconscio, sia l’umana natura non ammettono confini, sbarramenti, frontiere  alle potenzialità del “divenire”, del poter essere “altro, altro e poi altro ancora”.

Non solo nella innocua convenzionalità della fiaba (che per Lindsay iniziava da Wilde e si completava idealmente con Lewis Carrol, salvo scoprire, nel 1984, lo sfondamento disneyan-hollywoodiano della “Big Parade” in varianti di burlesque, nuovi afrori e altri incantesimi del cinema muto) ma nella prassi di una quotidianità che ti inchioda, volenti o nolenti, al confronto con il diverso, con l’altro da te, con “l’insospettato-inaspettato” che esigono farsi interlocutori, compagni di viaggio, comprimari di quel dionisiaco “piacere” dell’esistere “al suo stato nascente” tramontante in lungo addio e cognizione di ulteriori, persecutori dolori (mai messi in conto).   Non “a parole”- un artista come Kemp si esprime in prossemica, in spontanea gentilezza della sinuosità- tantomeno qual manifesto del suo teatro, credo però che il l’ultimo Punk di Marseyside   percepisse e  perorasse  il suo universo quale fine ultimo (semantico, morale, estetico) di un ‘preistorico’ lavoro delle ombre platoniche e della relativa, ininterrotta prassi didattica (il cuore di Lindsay cessò di battere, senza disturbo, poche ore dopo aver concluso  l’ ultima ‘evocazione’ agli stagisti di Livorno). Tutta centrata su passaggi, presagi e variopinti paesaggi mentali, inattuabili senza l’abbinamento di parsimonia, talento, magnetismo immaginifico- e nonostante gli antichi “sfarzi” (mai fine  a se stessi) delle più celebri sue messinscene.

Sembra un nonnulla, un mero gioco retrospettivo. Eppure non esisterebbe l’idea di  Teatro del Secondo ‘900- per gran parte di noi- se non avessimo avuto fortuna, curiosità, avventura di assistere ad un gruzzolo di titoli formativi e non più concepibili (nel cyberspazio dell’ultraweb, nell’interagire fra umanoidi e avatar sui social). Cito in ordine sparso (e per gusto personale): “Paradise now” del Living Theatre, “Orlando furioso” di Luca Ronconi, “120 giornate di Sodoma” di Vasilicò, “La classe morta” di Kantor, “Caffe Muller” di Pina Baush, “Flowers” di Kemp.  Tralasciamo i primi (ad altre occasioni?) e rianimiamo quest’ultimo alla nostra coscienza (ri)affiorata e selettiva.

Quasi dissolto ogni alone “maudit” derivante dal testo di Genet, lo spettacolo di Kemp (allora affiancato, nella vita  e sulla scena, dagli inseparabili David Haughton e dall’Incredibile Orlando, prematuramente scomparsi) è stato il più lancinante affresco sull’impossibilità della frase, del canovaccio, dell’ intreccio avvincente-psicologico di farsi “totalità del teatro”: anche se a suo supporto interviene il più possente degli impianti scenici. Non perché la “parola” non serva(più) , ma poiché essa esiste solo se dissolta nei “flussi dell’immagine” congrua, pertinente, ma in totale anarchia di accostamenti e contrasti.

“Celebrazione di amore e di morte, violenza e sesso estremo, naturismo hipppie e trasformismo  dei corpi” (L. Bentivoglio  in direzione di una favola di elfi e di fools- e verso la beatitudine del polimorfico che strappa l’imprinting delle bollature anagrafiche (l’identità è concetto più sottile, sfuggente…): quello di Kemp era un contributo al ribaltamento, alla rivolta dal basso (anzi, dai “gironi infermali” impartiti da Buoncostume e Potere) di un sulfureo emisfero popolato da angeli, ballerini, meretrici, galeotti, mercenari d’ogni risma sedotti (e purificati) dalla magnetica  presenza  di una Salomè bianco lattea, saffico-siderale che immaginammo divinità del fiume Lete mentre  dava  requie ed oblio ai naviganti senza più tragitto.

Ostico, totalizzante, messo all’indice, “Flowers” fu l’essenza   fruttifera di una squisitezza, di una poderosa affermazione del ‘siamo quel che siamo (e che saremo ancora)’ superiore ad ogni studio di antropologia comportamentale negli anni in cui – per convenzione- si credeva che la fantasia fosse andata a far da vertice e guida  di un’umanità affrancata dal bisogno e dalla dannazione del mercimonio (capitalista). Nel suo vispo cromatismo di eccitanti labilità: dalle categorie sessuali sfumate nelle plausibilità ‘ante litteram’ del gender in divenire al piccolo dedalo di stoffe, arazzi, costumi variopinti su alcove segrete ma non “perverse, turpi o scellerate”. Semmai candeggiate per ingentilite luminosità di stupefatto appeal, mai lezioso o torbido, casomai aggraziato (come tesoro cui dar la caccia) proprio perché educato a non esserlo. A non essere ipocrita come accade nelle lusinghe, negli   intervenuti commerci  di  prezzolato (non)amore del  tempo in cui ci tocca sostare. Senza che si intraveda l’ombra di alcuna insurrezione, dissenso, negazione  di corpi ‘reificati’ dalle Divinità dello scabroso. Del merchandising. Nel caos non più iridescente che adesso si consuma fra tante passioni diventate macchiettistiche, inanimate.

Grazie per esserci stato,  Lindsay.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21