Fabio Anselmo: “Aldrovandi sarebbe ancora vivo se ci fosse stata una legge efficace contro la tortura”

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«Sono la maggioranza. Ma è una maggioranza troppo silenziosa». Con queste parole l’avvocato Fabio Anselmo, legale rappresentante delle famiglie Aldrovandi e Cucchi ma non solo, fa appello a polizia e carabinieri che fanno il loro lavoro onestamente e soprattutto non hanno nulla a che fare con chi invece continua a strumentalizzare vicende tragiche per il paese.

Come la morte di Federico Aldrovandi, che questa volta è stata utilizzata per giustificare il taser, l’arma che con una scarica elettrica è stata introdotta anche in Italia, in via sperimentale. Il questore di Reggio Emilia, Antonio Sbordone, già questore di Ferrara, ha infatti detto durante un’intervista al Resto del Carlino che se i poliziotti che nel 2005 fermarono Federico avessero avuto il taser, il 18enne non sarebbe morto. Invece, ha aggiunto, «per fermare un giovane alto 1 metro e 90 agitatissimo hanno dovuto usare anche i manganelli».

Avvocato Anselmo, per lei che ha difeso la famiglia Aldrovandi, qual è la nota più dolente dell’affermazione del questore?
«Io dico che Federico sarebbe ancora vivo se ci fosse stata una legge efficace contro la tortura. Altro che taser. In ogni caso fatico a trovare un significato coerente nelle parole del questore: l’uso dei manganelli sul corpo di Federico è stato definito illegittimo da sentenze passate in giudicato. E ci sono delle regole: i manganelli si usano in situazioni di pericolo per l’ordine pubblico e sulle gambe. Non sulla testa. La sentenza del giudice parla di «scontro fisico violento con quattro agenti di polizia senza nessuna ragione effettiva» e non è pensabile che vengano messe in discussione sentenze che, ripeto, sono passate in giudicato. Se alcuni poliziotti sbagliano, non c’è bisogno di fare corporativismo e mancare di rispetto ai magistrati. Inoltre, le famiglie andrebbero lasciate in pace. Sarebbe anche ora».

Tutto questo avviene in un periodo in cui la società civile si mostra attenta al problema degli abusi di Stato: dal libro “Federico” di cui lei è autore, al film sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi. Vi aspettavate questa partecipazione?
«La risposta della cittadinanza al film di Alessio Cremonini fa venire i brividi e no, non ce lo aspettavamo. Forse le persone, prima della tanto sbandierata “onestà” hanno bisogno di parlare di “umanità”. E il libro su Federico cerca di restituire a un giovane incensurato  che non aveva mai fatto del male a nessuno, proprio l’umanità. L’intento è quello di raccontare le vicende umane nella tragedia. Si cerca di restituire un’anima e un corpo a persone che troppo spesso vengono spersonalizzate, quasi a legittimarne la morte e per cercare di far dimenticare quello che hanno subito. Queste stesse persone, e mi riferisco ai soliti sindacati di polizia come il Coisp e il Sap, alzano gli scudi di fronte ai film o ai libri, ma alcune sentenze sono sempre pronti a metterle in discussione».

Le affermazioni del questore da una parte e le levate di scudi di alcuni sindacati dall’altra, non rischiano di creare un clima di tensione e di diffidenza tra forze dell’ordine e cittadini?
«Certo. Ma la stragrande maggioranza degli agenti di polizia e dei carabinieri non condividono in nessun modo le strumentalizzazioni di queste vicende. Però è una maggioranza troppo silenziosa. Una parte di procura e questura, hanno nascosto la verità sul caso di Federico all’inizio delle indagini e nessuno, delle 140 persone che hanno incontrato Stefano, ha interrotto la catena del silenzio. C’è qualcosa che non funziona a livello di responsabilità e i sindacati che rappresentano la maggioranza dei poliziotti e carabinieri onesti dovrebbero intervenire e farsi sentire».


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