L’Italia non cresce. O meglio cresce solo il debito, 2279 miliardi, una voragine, nel disinteresse di governisti e media

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Cgil: “Si allarga la fascia del disagio economico e sociale. Colpiti 9 milioni di lavoratori e famiglie”. La Ue prepara i conti

Di Alessandro Cardulli

Interessa a qualcuno, agli autorevoli, si fa per dire, scriba dei giornaloni o di quelli che fanno parte della compagnia di giro che te li trovi da mattina a notte su tutte le televisioni e radio a discutere del nulla, il fatto che il debito pubblico del nostro paese ha toccato un record certo non invidiabile? A gennaio, dati Bankitalia, ha toccato la quota di 2.279.9 miliardi, aumentando di 23,8 miliardi sul mese. Ogni italiano precedente, neonati e anziani non si fa distinzione, porta sul groppone oltre 37 mila euro di debito. Se poi si raffrontano questi dati con le promesse che sono circolate in campagna elettorale il buco del debiti diventa una voragine che tutto inghiotte dalla quale difficile è risalire specie se consideriamo il rapporto debito-pil, visto che la crescita praticamente è ferma.

Scacchetti: il lavoro a tempo indeterminato sostituito dal precariato

Aggiungiamo che si allarga la fascia del disagio economico e sociale, nella fascia di età fra i 35 e i 49 anni, quella più penalizzata, come rileva Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil “dove c’è gente che il lavoro – quasi sempre a tempo indeterminato – lo ha perso ed è stata sostituita da persone precarie con contratti a termine, anche di brevissima durata. In particolare, va crescendo la somministrazione di due o tre giorni, ma anche il part time involontario. È chiaro che costoro non li possiamo considerare nell’ambito di una ripresa strutturale dell’occupazione, perché è tutto lavoro povero e alla fine quei lavoratori rimangono nell’area del disagio economico e sociale”. SI tratta, come ha reso noto Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, di ben nove milioni di lavoratori che “abitano” nella fascia del disagio.

Una nuova batosta mentre siamo alle prese con il Bilancio da presentare alla Ue

Il dato sul debito reso noto da Bankitalia una volta avrebbe fatto subito notizia. Invece i quotidiani online quasi ignorano, come fosse un normale fatto di cronaca e non un una nuova batosta proprio mentre siamo alle prese con il Def, il documento di economia e finanza, il Bilancio insomma, che dobbiamo presentare ai Commissari della Unione europea. Per ora siamo salvi visto che sarà compito del governo che verrà, se e quando verrà, rendere conto della nostra situazione economica, delle previsioni per il futuro. Non è un caso che  Dombrovskis, Moscovici, ci  dettano i compiti a casa, primo fra tutti la riduzione del debito pubblico. Forse per questo sia  i i governanti presenti che quelli futuri, prima o poi qualcuno verrà eletto, se non ora quando verrebbe da chiedersi, tacciono sul debito che vola. Ma si tratta di un altro discorso, altra storia.

Le banalità di Gentiloni, Martina, Guerini.  Davvero ci  vuol coraggio

Leggendo le dichiarazioni rilasciate da Gentiloni, che forse non era ancora a conoscenza dei dati forniti da Bankitalia, ma di quelli relativi al voto per il suo partito, si resta davvero basiti. Il presidente del Consiglio, dimissionario, ha detto che “bisogna avere fiducia nel Paese”, che “c’è bisogno  di serietà e coraggio perché senza non si riesce a dare un futuro a un paese che ha potenzialità straordinarie e rispetto al quale dobbiamo avere il massimo della fiducia”. Ci scusi, presidente, ma si tratta di banalità assolute. Fanno il pari con quelle di Martina e Guerini, l’uno “reggente” del Pd, l’altro un consigliere di lungo corso, dai tempi di Forlani, se non andiamo errati, i quali hanno ribadito per quanto riguarda la elezione dei presidenti di Senato e Camera la disponibilità a un confronto tra tutte le forze politiche su “presidenze di garanzia” e rilanciato la “necessità che si ragioni di profili autorevoli”. Ci mancherebbe altro che per cariche così importanti si stesse trattando su profili da cani scalzi.

Torniamo così ai dati resi noti da Bankitalia. Balza agli occhi il debito delle Amministrazioni centrali aumentato di 23,3 miliardi e quello delle Amministrazioni locali di 0,5 miliardi; il debito degli Enti di previdenza è rimasto pressoché invariato. Nella nota di Bankitalia si legge anche un aggiornamento sull’andamento delle entrate tributarie nel primo mese dell’anno: sono state pari a 33,7 miliardi, in calo di 1,6 miliardi rispetto a quelle rilevate nello stesso mese del 2017. “Al netto di alcune disomogeneità contabili si può stimare che le entrate tributarie siano state sostanzialmente in linea con lo scorso anno”. Insomma, malgrado le sanatorie, le cartelle dimezzate, l’evasione fiscale non è stata colpita.

I conti che dobbiamo fare con la Ue. Manovre che ci costeranno miliardi

Questa è la situazione e con questi conti ha ragione Gentiloni quando afferma che c’è bisogno di serietà e coraggio. Ma non basta, ci vuol ben altro. È istruttivo leggerli a confronto con quelli che in questi giorni sono arrivati sia da Via Nazionale, sia dall’’Istat e dall’Ocse. In particolare anche in raffronto con la posizione dell’Italia rispetto ai conti che dobbiamo fare con la Ue. Nelle prossime settimane si dovrà mettere a punto una manovra bis che ci costerà 3,4 miliardi altrimenti, in base al Trattato europeo, articolo 126.R, non possiamo godere della flessibilità di bilancio. Per quanto riguarda l’Iva è da prevedere dal 1 gennaio dell’anno prossimo un aumento  di circa due punti percentuali. Sarà oggetto di discussione e di decisione del governo che verrà. Per evitare l’aumento servirebbero circa 12 miliardi, qualcosina in più magari. Da sottolineare che il rapporto deficit-Pil che misura lo stato dell’economia si valuta scenda al di sotto dell’1%. Ancora, l’Ocse segnala che le previsioni di Pil della Germania sono al 2,4%, quelle della Francia al 2,2 mentre il nostro paese è fermo all’1,5, il prossimo anno sembra ancorato, se va bene all’1%. Aggiungiamo che il cambio della guardia alla Banca Centrale europea, l’uscita di Draghi e l’ingresso di un falco, significa la chiusura del Quantitative easing, l’acquisto di buoni del tesoro che ha bloccato i tassi e ci ha consentito di “galleggiare”. Ci sogneremo la notte la flessibilità che ci ha concesso la Ue, leggi Juncker, 29,7 miliardi dal 2015 al 2017 con il risparmio di circa 20 miliardi per interessi.

Quanto hanno pesato i “bonus” sul Bilancio e quanto hanno “reso”

Sarebbe interessante ricostruire il rapporto fra quanto hanno pesato i bonus sui bilanci dello Stato e quanto hanno “reso” in termini di sviluppo economico, lavoro, benessere. Davvero una voragine. Per quanto riguarda l’occupazione siamo in presenza di una precarizzazione che riguarda l’intero mercato del lavoro. Tania Scachetti rileva che “fra tutti i dati, ciò che più colpisce è che il lavoro a tempo indeterminato era oltre il 40% del totale nel 2015, mentre tre anni dopo si attesta al 23%”. Fulvio Fammoni, Fondazione Di Vittorio ribadisce che “gli occupati crescono, ma sono tutti a tempo. L’aumento maggiore è per i contratti che non superano i sei mesi. Il reddito non sale per tutti, una famiglia su quattro rischia la povertà come dice la ricerca di Bankitalia. I numeri sulla occupazione – prosegue – vanno letti qualitativamente, non solo quantitativamente. Non crescono affatto le ore lavorate, anzi resta un grande gap rispetto al 2008. E soprattutto nella stragrande maggioranza è lavoro precario: tempo determinato, impiego breve o brevissimo, basti dire che la crescita maggiore riguarda i contratti che non superano i sei mesi. Negli ultimi sei mesi su dieci assunti solo uno è a tempo indeterminato, o meglio con il contratto a tutele crescenti. Nell’ultimo trimestre – prosegue Fammoni, intervistato da RadioArticolo1 – ci sono 12mila occupati in più, ovvero praticamente niente”.

Fammoni. L’incertezza sul futuro diventa rabbia e malumore

Nel frattempo il Pil cresce, ma al di sotto della media europea: “L’aumento però non si traduce in occupazione di qualità. Allora forse bisogna interrogarsi sulla qualità di questo sviluppo: è evidente che, così com’è, il lavoro non riesce a rilanciare davvero la crescita. Da parte loro, le imprese immaginano l’impiego solo come contratti a termine, ovvero pensando al risparmio sui costi”. Per quanto riguarda la ricerca di Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie italiane Fammoni sottolinea che “aumenta il reddito medio del 3,5%, quindi si dice che cresce la ricchezza, ma siamo ancora sotto dell’11% rispetto al 2006. E poi c’è una domanda di fondo: questo aumento del reddito riguarda tutti? Assolutamente no. Oggi il rischio di povertà è pari al 23%: questo significa che può diventare povera una famiglia italiana su quattro, è il dato maggiore che abbiamo mai avuto. Il lavoro dunque non è più in grado di diventare elemento di promozione sociale: troppo basso il reddito, nessuna certezza di ottenere e mantenere lavoro”.  La verità è un’altra: “C’è un grande problema nelle famiglie e cittadini italiani: un’incertezza sul futuro che diventa rabbia e malumore. Guardiamo le ultime elezioni politiche, questo è stato evidente. La politica dei bonus è definitivamente fallita. Adesso serve una politica di carattere strutturale che guardi al futuro: occorrono investimenti produttivi, ma non sulla produttività del lavoro bensì sui fattori alla base, come l’innovazione, il trasporto e la logistica, l’energia. Questi sono i nodi strutturali su cui intervenire – conclude – per lanciare il messaggio che è possibile un futuro migliore”.

Da jobsnews


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