La vera sfida è contro la cultura degli inganni

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di Giuseppe Lombardo

Sostiene Stephen Hawking: “Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza”.
Non possiamo più correre il rischio, quando si parla di mafie, di accettare dogmi o precomprensioni. La ricerca della verità va coltivata ogni giorno attraverso la valorizzazione di metodi di lavoro che, aperti al confronto, siano la sintesi di determinazione e flessibilità.
Chi opera dalla parte della legge sa che la giustizia non si alimenta di gesti arroganti ma di azioni autorevoli e decise: caratteristiche proprie di chi è chiamato a rappresentare lo Stato.
Lo sanno benissimo, gli uomini e le donne di mafia, che il giudice è tanto più forte quanto più è ampia la sua capacità di conoscenza, che consente di aprire amplissimi spazi alla correlata libertà di giudizio. Sanno bene quegli uomini e quelle donne che il giudice libero è l’esatto contrario del mafioso, che è servo degli schemi criminali che la sua appartenenza gli impone: è schiavo di una linea di comando che, in quanto oscura, non lo rassicura per niente e lo mette, ogni giorno, di fronte al dubbio che acceca l’esistenza di chi non comprenderà mai fino in fondo il suo vero ruolo.
Il grande capo, come il picciotto, vive nel sospetto che ci sia altro a governare il suo stesso agire. Quanto sia esteso quel mondo di sopra non sarà mai in grado di saperlo: è immerso nella drammatica consapevolezza di chi non conosce e non può scegliere. E chi non può scegliere non decide. Al mafioso non rimane altro che vivere in uno stato di perenne autoinganno. Che può diventare appagante ai suoi occhi nella misura in cui quel microcosmo criminale, dagli incerti confini, tende a trasformarsi ogni giorno in qualcosa di diverso, in una sorta di rincorsa ciclica verso nuove forme di manifestazione mafiosa.
Ecco la ragione per la quale il moderno contrasto ai sistemi criminali, sempre più integrati ed allargati, passa anche e soprattutto dalla nostra capacità di comunicare che la forza dello Stato va oltre il semplice contrasto del simbolismo mafioso. Oggi siamo chiamati a colpire in profondità la loro capacità di veicolare i loro valori antidemocratici, spezzando i nuovi circuiti informativi in grado di alimentare dinamiche criminali sempre più evolute.
Non è più necessario ricordare i numerosi episodi tipici della sopraffazione mafiosa, a cui l’Italia ha assistito nella sua lunga storia, per trarre la convinzione che ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra ed altre espressioni del crimine organizzato – che divengono manifestazione unitaria quando è richiesto da interessi superiori – hanno da tempo trovato il “loro” modo di comunicare, a volte in modo grossolano altre attraverso raffinati simbolismi, di essere capaci di condizionare il destino di migliaia di persone.
La vera sfida che ci aspetta è quella di creare, collettivamente, le condizioni affinché un numero elevatissimo di persone, spesso libere e non sottomesse solo nel loro foro interiore, non divengano più le nuove componenti dell’ampia comunità dei deboli, degli impauriti, dei soggiogati. Dei collusi, dei contigui, dei conniventi e dei fiancheggiatori. Dei concorrenti esterni. Di tutti quelli che tristemente sono accomunati dalla frustrante convinzione che in una sorta di gioco circolare di copertura periodica, di cui divengono spesso protagonisti, si possa trovare la forza di costruire il futuro di realtà territoriali quasi integralmente inginocchiate davanti ad un boia, al quale, con coraggio, andrebbe tolto definitivamente il cappuccio.
Non è più tempo di ascoltare solo le paure, fisiche e psicologiche, di quei soggetti che la mafia l’hanno sfiorata o vissuta da vittime sulla propria pelle. Non basta più guardare gli occhi spenti di tutti quelli che non hanno avuto la forza di chiedere aiuto. Attraverso la percezione di quelle paure e di quegli sguardi abbiamo capito che la risposta alla domanda di giustizia, in questo Paese, passa dal coraggio di chi agisce e non dal silenzio vigliacco di chi osserva.
“La vigliaccheria chiede: è sicuro? L’opportunità chiede: è conveniente? La vana gloria chiede: è popolare? Ma la coscienza chiede: è giusto?”. Alla coscienza dei tanti che per troppo tempo si sono interrogati sulla efficacia delle azioni da intraprendere, le mafie hanno continuato a contrapporre veicoli comunicativi rapidi, che allo stesso tempo sono divenuti destabilizzanti ed eversivi.
Proprio per questo oggi siamo chiamati a rinnovare la determinazione di chi coltiva un alto senso di giustizia ed è consapevole che la forza della legge diventa dirompente nell’azione di contrasto del crimine organizzato nel momento in cui la sua concreta applicazione sia preceduta dalla comprensione profonda del linguaggio, spesso simbolico, allusivo o gestuale, di tutti coloro i quali determinano, realmente, le sorti di strutture mafiose così ampie, complesse ed evolute.
Nelle mille sfaccettature, intonazioni, sottintesi del loro modo di parlare c’è la traccia di una capacità di comunicare a cui noi siamo chiamati a contrapporre la forza della conoscenza collettiva, della giustizia diffusa, del moderno sentire antimafia. Quello delle mafie non è il nostro linguaggio. Non è il nostro modo di comunicare e non lo sarà mai. Nei loro messaggi violenti, originati dall’arroganza culturale tipica di chi non regge il confronto ad armi pari, si annidano significati ulteriori che hanno contribuito a generare la convinzione del mafioso di essere portatore di un modello forte e vincente.
Abbiamo ormai compreso il loro modo di comunicare, incrociando i loro sguardi, osservando i loro gesti, ascoltando i loro silenzi. Senza che se ne siano accorti, ci hanno detto molto di più di quanto avevano preventivato, consentendoci di comprendere che al dovere morale di combatterli con tutte le forze, senza girarsi mai dall’altra parte, deve seguire oggi l’impegno collettivo di tutti quelli che hanno scelto di contribuire alla crescita di una comunità nazionale che si identifica negli alti principi antimafia della nostra Carta costituzionale.
È indicata in quelle pagine la strada che ognuno di noi è chiamato a seguire. Nel contrasto alle mafie non ci sono spettatori, non ci sono tifosi, non ci sono sostenitori: ci sono solo cittadini che svolgono tutti insieme funzioni pubbliche, con disciplina ed onore, divenendo protagonisti di quella necessaria, ed ampia, azione di salvaguardia del bene comune.
Non è più tempo di sperare che altri, domani, facciano la parte che oggi tocca a noi. Domani, nell’azione di contrasto alle mafie, è sempre troppo tardi.

Da mafie


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