Il Gabbiano. Giancarlo Nanni e quella regia che sfida il tempo

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Le grandi regie del passato assomigliano ai grandi amori. Dimenticarli è difficile – gli amori più che le regie – riprenderli è pericoloso. Il tempo li ha spinti nella nostalgia, in un cassetto dove, sfidando polvere e allergia, sfioriamo una lettera o un ritaglio ingiallito di giornale, per farci un poco male,per ricordarci d’essere stati più bravi, più belli e soprattutto più felici. Pausa. Fazzoletti.

Al Teatro Vascello, vent’anni dopo la prima, Manuela Kustermann riporta in scena Il Gabbiano di Čechov nella grande regia di Giancarlo Nanni, suo grande amore artistico. Il cassetto, il pericolo, appunto. E invece è stata davvero una buona idea per la direttrice della Fabbrica dell’Attore omaggiare Nanni, riprendendo lo spettacolo che, dopo l’apprezzamento di Estelle Parsons, portò il regista a dirigere un laboratorio all’Actors Studio.

La trama del Gabbiano è presto detta: Irina (Kustermann) è un’ attrice egoista e capricciosa, ha un figlio, Kostja (Lorenzo Frediani), fragile e frastornato dal suo temperamento artistico di scrittore e dall’amore per l’aspirante attrice Nina (Eleonora De Luca, Anna Sozzani per la Nina russa). Nella noia della vita in campagna, tra aspirazioni e inadeguatezza, tutto si complica a causa di qualche asimmetria sentimentale cui prendono parte, oltre ai protagonisti, il romanziere Trigorin (Paolo Lorimer) e Maša (Sara Borsarelli). Non mancano un paio di colpi di pistola, tra cui quello al gabbiano. Altri personaggi danno equilibrio alla commedia: in questo adattamento troviamo Sorin, fratello di Irina, il medico Dorn (Massimo Fedele), il maestro Medvedenko (Maurizio Palladino, che inoltre condivide con Fedele il ruolo di Dorn). Si aggiungano il trascorrere di un paio d’anni tra il terzo e il quarto atto e tutto ciò che di positivamente smisurato c’è in Čechov: azione mossa dai personaggi, dai simboli, dagli stati d’animo, dalla psicologia e dal ritmo più che dagli eventi.

Dopo uno studio durato un biennio, Nanni portò a compimento il sodalizio tra teatro di parola e teatro di immagine. Oggi l’operazione mantiene una sua forza e si trasforma anche in testimonianza di un percorso creativo lungo cinquant’anni, dai tempi del teatro della Fede, con i topi ghiotti di cerone bianco, allo Stabile d’Innovazione. Lo spettatore è guidato nella necessaria storicizzazione da un messaggio cui dà voce la stessa Kustermann prima dello spettacolo, mentre scorrono foto di Nanni. La direttrice richiama, in breve, la storia della messa in scena e i passaggi artistici del regista. Quindi, sulle note di Lucio Battisti, che allora nessuno si sarebbe aspettato, la parola (o l’immagine) passa agli attori.

Un paio di sbarre, una tela nera a terra, un sipario in fondo, opportuno segno metascenico della più metateatrale tra le commedie čechoviane, in seguito qualche sedia, altri teli, vestiti appesi, ed è tutto. La sovrabbondanza naturalistica stanislavskijana di scene e oggetti chiaramente non interessa Nanni, teso a entrare nei nuclei del testo, a ripresentarli, scomposti quasi in senso cubista, sul palcoscenico, soprattutto nella prima parte, frutto di un lavoro di improvvisazioni che si sono via via cristallizzate. Quel che più preme all’interprete è restituire gli stati d’animo con atmosfere sceniche, pennellate di colori, chiaroscuri, una tensione pittorica ereditata dal suo passato nella Scuola romana. Per questo, se il senso di morte intossica la villa di Sorin, allora gli attori avanzeranno, la bocca coperta da mascherine, trasformandosi in un corpo unico che si copre con il velluto nero e getta una rosa bianca sulla propria esistenza: “-Perché vesti sempre di nero? –È il lutto per la mia vita infelice”.

Un’antologia di sentimenti in immagine scorre davanti allo spettatore tra statue di sale, ripetizioni, circo, musica da cabaret, veli d’argento, sipari. La parola si moltiplica sulla scena attraverso un linguaggio simbolico plurale. Sembra che Nanni, per un momento, voglia mettere in pratica il postulato di Kostja: “Non bisogna rappresentare la vita come è, né come dovrebbe essere, ma come ci appare nei sogni”. Per farlo il regista gioca con la velocità e con la luce, che, ad esempio, definisce lo spazio scenico perché Irina declami Amleto, archetipo importante per Čechov nel Gabbiano. Le luci, in effetti, al pari dei suoni, partecipano della semantica drammatica. A disegnarle è, come venti anni fa, Valerio Geroldi. D’altronde la coraggiosa ripresa funziona anche perché, al Vascello, il gruppo degli anni Novanta è tornato quasi al completo, eccezion fatta per i ruoli di Kostja e Nina, per ragioni anagrafiche evidenti.

Nanni e la Kustermann scelgono di concentrarsi su quanto c’è di atemporale nell’opera di Čechov e lo fanno risaltare puntando sui nuclei costitutivi – atmosfere più che eventi – servendosi di musiche che vanno dal già ricordato Battisti a Philip Glass, Meredith Monk, Michael Walton, scegliendo costumi tendenti all’acronia, contaminando passato e presente, come avviene nella dialettica tra le due Nine. Anna Sozzani, la Nina russa, rappresenta l’anima del personaggio čechoviano, ne riporta la docilità complicata, modulando sguardi, gesti e sorrisi espressivi che fanno da eco naturalistico alla tormentata Nina, interpretata con tensione da Eleonora De Luca, cui sono affidate le note più cupe e moderne del ruolo.

Le immagini di Nanni svestono la parola, offrono al nostro sguardo il sottinteso e l’esplicito. È così negli scambi tra Irina e Trigorin o nel feroce, sorprendente dialogo dal sapore incestuoso che si consuma tra la madre e Kostja. Eppure l’immagine non diventa o non diventa quasi mai illustrazione, riesce cioè a suggerire senza rendere didascalico. Il senso di colpa che assale Irina, dopo aver offeso il figlio, si accompagna alla figura degli attori che camminano tenendo dritto sulla mano un bastone, e questo rafforza la comunicazione del difficile equilibrio emotivo dei personaggi. Nanni non incorre in quell’errore che Mejerchol’d descriveva come “la paura del mistero, del non dir tutto”, ma lascia allo spettatore la libertà di cooperare, di abitare il suo spazio di interpretazione, uno spazio temuto da molti registi.

È lecito che qualcuno, specialmente se affamato di continue palingenesi teatrali, consideri un controsenso la scelta di riprendere uno spettacolo d’avanguardia È giusto o no trasformare il teatro sperimentale in teatro museo? Difficile dare una risposta. Forse no e non v’è dubbio che chi vent’anni fa trovò dirompente questo allestimento oggi possa faticare a provare le stesse emozioni, a rintracciare la medesima capacità di sconvolgere il linguaggio con “nuovo forme”, come vorrebbe Kostja. Se già nei Novanta l’avanguardia tirava le somme delle esperienze iniziate trent’anni prima, nel tempo che arriva all’oggi abbiamo persino familiarizzato con quanto è successo o è arrivato dopo: le luci di Bob Wilson, le immagini di Nekrosius, Jan Fabre, Lev Dodin, le partiture fisiche della Bausch, della Dante, le costruzioni di Romeo Castellucci, Eugenio Barba e così via. Ma questo non toglie nulla al valore dell’omaggio a Nanni voluto dalla Kustermann. In più, lo spettacolo, se nella prima parte corre il rischio di perdere qualcosa dell’originaria freschezza, nella seconda assume un suo peso specifico, guadagna in struttura e corpo.

Un grande telo pende dall’alto come un’onda sospesa, poi si agita, diventa tempesta, i suoni della natura fanno il verso a quegli effetti tanto graditi a Stanislavskij, la luce completa il resto, la commedia riprende maggiore linearità. Nanni restituisce spazio alla parola senza rinunciare all’immagine, che si fa più ampia, però, e permette agli interpreti di raggiungere i mezzi toni čecoviani capaci di spostare la tragedia fuori dalla scena e dalle parole stesse. Gli attori possono adesso farsi carico di quella che Alberto Moravia definiva la “chiacchiera simbolica”: con l’angoscia, la provvisorietà, il presentimento della catastrofe irrappresentabile. Questo è tuttora il merito maggiore della regia. Il presagio e la disillusione čecoviani sono resi benissimo anche da alcune interpretazioni, come quella di Massimo Fedele, nei panni di Sorin. Si fanno notare il bell’equilibrio di Maurizio Palladino e di Sara Borsarelli, l’energia di Lorenzo Frediani. Manuela Kustermann è poi l’interprete più compiuta e dà prova di grande statura teatrale, emoziona. La sua Irina ha il disincanto, quell’egoismo stanco che può indulgere a momenti di umanissimo affetto, ha la forza di chi accetta un armistizio svantaggioso e vive meno, col tormento di avere, un tempo, vissuto di più, di essere stato di più. Colpiscono la sua scelta di sobrietà interpretativa, il suo rispetto del disegno registico. Questa generosità, che si fa segno evidente quando durante gli applausi finali bacia sulla guancia gli attori giovani, Frediani e la De Luca, non è solo ammirevole sul piano delle relazioni professionali, ma è strumento efficace per la tenuta dell’armonia scenica. Così, mito, rito, biografia artistica si fondono in Irina-Kustermann, e quando la percezione della morte di Kostja diventa certezza della rovina, nella consapevolezza dell’irreparabile, nello sguardo dell’interprete, qui ancor più Agave che nelle Baccanti, sembra di leggere anche la storia dell’avventura dell’avanguardia. Così gli occhi di Manuela, vivi, dolorosi, paiono chiedersi dove siano finiti il Living Theatre, Julian Beck, Judith Malina, dove sia Kantor che inaugurò il Vascello. E tu, Giancarlo, dove sei?

“Kostja!”, grida Irina. La commedia finisce. Inizia la tragedia.


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