La moglie dell’inviato

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Quando esplodeva una notizia, cominciava a preparare la valigia. Sicura che dopo pochi minuti sarebbe arrivata la telefonata. Dietro la vita folle di un inviato c’è sempre una donna. Se ho combinato qualcosa nella vita, lo devo sicuramente a Rosaria, mia moglie che per un beffardo gioco del destino è volata in cielo lo stesso giorno di Albino Longhi, il mio primo direttore. La pensione è solo un fatto burocratico ma sento che in qualche maniera si è chiuso un ciclo in apertura di questo 2018 che già mi mette paura. Rosaria non ha mai svolto ruoli paralleli ma era appassionatissima di cronaca e mi dava idee, consigli, aggiornamenti. Quando stavo fuori mi forniva in tempo reale il percorso delle testate concorrenti. Qualche volta mi ha raggiunto: per esempio in Sardegna dove ero impegnato da oltre un mese per il caso Farouk. Arrivata con la moglie di Claudio, l’operatore, le abbiamo invitate a starsene al mare, a Porto Cervo. “Per carità” hanno protestato “veniamo con voi”. E ci hanno seguito in Barbagia, conoscendo anche qualche protagonista a Orgosolo. Un’altra volta mi ha raggiunto in Tunisia e faceva le veglie con me sotto l‘ospedale di Hammamet durante l’agonia di Craxi, scambiando con la figlia Stefania molte informazioni sul diabete di cui era esperta avendo vissuto la lunga malattia del padre. Altre volte si è ritrovata casualmente dentro la notizia. Una volta mentre stavamo per negozi al Corso sono scappato davanti a Palazzo Chigi per un allarme bomba. Ha chiamato la redazione, ha saputo dove stavo e dopo pochi minuti me la sono ritrovata accanto nonostante il cordone di polizia perché ha usato i miei documenti. Un’altra volta ci siamo ritrovati accanto alla pineta che costeggia l’aeroporto di Fiumicino per un’emergenza terrorismo: sono arrivati i Nocs, roba da film, è rimasta in auto calma a tranquilla a seguire tutto.

Eravamo sposati da 45 anni che sono una vita ma abbiamo sempre scherzato sul fatto che in fondo ne abbiamo vissuti insieme la metà, perché nel momento più operativo mancavo da casa sette-otto mesi. E lei era la certezza: ha cresciuto il figlio, ha pensato a trovare la casa, sbrigava tutta l’amministrazione con acume e sapienza. Si è presa molte paure: come quando si è perso il nostro aereo mentre andavamo in Kenya per l’Achille Lauro (eravamo bloccati a Mogadiscio) oppure quando ci hanno sparato alle porte di Baghdad. Un giorno le ho chiesto: vuoi che mi fermo, che sto in ufficio? “Per carità – mi ha risposto – saresti insopportabile così invece sei felice e io sono orgogliosa di quello che fai”. Mi ha sempre sostenuto, dandomi coraggio, soffocando la sua angoscia. Parlava lei con Shafiq  a  Kabul, tanto per dire, e preparava la spesa per i miei bimbi afghani.

Quando l’ho conosciuta era una ragazzina, aveva diciannove anni, ero precario. Quando ho trovato lavoro ad Ancona mi ha sposato e mi ha accompagnato passo passo, sempre, condividendo non senza difficoltà, la mia vita. Ha sopportato le lunghe assenze, quanti Capodanni è stata sola. Mi ha dedicato tutta se stessa e sono felice di esserle stato a fianco durante l’ultimo anno d’inferno e che siamo stati insieme anche l‘ultima notte della sua vita, vicini come forse non lo siamo mai stati. “E’ dura. Dovrai imparare tante cose”: la mia ragazza del ’51 per l’ennesima volta ha avuto ragione, è durissima. Ho perso fisicamente mia moglie, tutta la mia vita, ma ora ho un angelo che continuerà a guidarmi e a proteggermi, lo so. Addio amore mio. Ma è solo un arrivederci


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