Fake news. Il “pool antibufale” annunciato da Minniti rischia di essere un brutto precedente

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Il “pool antibufale” deciso dal governo per reagire all’era imperante delle fake contiene un errore di grammatica istituzionale. Forse le intenzioni erano altre, ma la forma in un caso come questo conta più del contenuto. Per quanto spesso risulti odiosa la pratica attecchita in rete – offensiva verso verità e persone coinvolte-  se si entra nel territorio della manifestazione del pensiero e delle opinioni il potere esecutivo deve farsi da parte. E il “bottone rosso” che può schiacciare la Polizia postale e delle comunicazioni è, malgrado la competenza riconosciuta di un comparto  di eccellenza, una mina vagante. Perché quando si maneggia il tema tanto alla moda delle fake si pensa ai casi limite clamorosi di cui si è parlato e si parla, ma non si considera l’effetto erga omnes delle disposizioni normative e regolamentari. Chi decide che cosa e in base a quali parametri? Un ministero della Verità, come descrissero famose pagine della letteratura? E poi, ci si metta una buona volta la mano sulla coscienza: le disposizioni emergenziali hanno mai davvero risolto un problema? Le politiche criminali hanno sempre dovuto fare i conti con la realtà. Vale a dire, i criminali forti non considerano un problema –anzi- il giocare a guardie e ladri. Gli unici a subire qualche conseguenza sono i “piccoli” rei, che potrebbero peraltro essere perseguiti già oggi a legislazione invariata. E sui quali l’influenza benefica maggiore starebbe in capo alla scuola e alle agenzie formative, nonché a coloro che fanno opinione in rete. In Internet fiducia e affidabilità erano tutto agli albori della “navigazione”. Ripartiamo da lì.

Insomma, il “Primo protocollo operativo per il contrasto alla diffusione delle fake news attraverso il Web” annunciato dal ministro degli interni Minniti rischia di essere un brutto precedente. Le stesse considerazioni sulla necessità di vigilare sulla imminente campagna elettorale aggiungono altre preoccupazioni, essendo il voto il momento di massimo esercizio delle libertà. E ci mancherebbe altro. Almeno si potevano coinvolgere le Autorità a diverso titolo evocate, dall’Agcom al Garante dei dati personali. Presso l’Autorità per le comunicazioni esiste da tempo un tavolo di lavoro. Si potrebbe valorizzare meglio ciò che c’è. Persino il sottosegretario con delega ai media Giacomelli ha protestato, anche per il mancato coinvolgimento del suo dicastero, un po’ meno “incompetente”. Almeno sulla carta.

Il retrogusto amaro del “Primo (e speriamo ultimo, ndr) protocollo ”è che si voglia vegliare sulla campagna elettorale, facendo proprio campagna elettorale. Si sa che l’ideologia securitaria va molto nel marketing del consenso.

Il capitolo dei social e della loro trasparenza –chi gestisce gli algoritmi, chi svela gli impostori- ci interpella sull’urgenza di uno spazio di decisione pubblico e partecipato. Guai a pensare che tutto si possa risolvere con gli spiriti coercitivi o con i buonismi esibiti dal patron di Facebook. Meglio sarebbe uno specifico, indipendente Giurì, democraticamente nominato,  piuttosto che vagheggiare soluzioni pericolose e, per giunta, destinate ad una rapida obsolescenza. Si sa che una scelta rischiosa e confusa non viene neppure applicata, essendo di fatto impraticabile. O no?

Caro ministro Minniti, torni sui suoi passi. Errare, del resto, è umano.


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