Bentornato Federico (cronaca fantasiosa di un evento epocale)

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Era stato un sabato speciale, di sole in cielo e di festa per l’intera città. Alle 11 in punto Federico Fellini sarebbe tornato a casa, nella sua Rimini, al suo cinema Fulgor. Quanta gente ad attenderlo! Dalla piazza un fiume di persone defluiva in Corso d’Augusto dove un imponente servizio d’ordine era stato predisposto per arginare la calca, far entrare nella sala soltanto i pochi fortunati che possedevano l’invito strettamente nominale, un elegantissimo cartoncino in busta nera. Per onorare il ritorno del grande artista si erano mossi ministri della repubblica, politici, sindaci, amministratori, qualche bel nome dello spettacolo; e a officiare la cerimonia Andrea Purgatori, giornalista d’inchiesta e ben noto personaggio televisivo. Il presentatore chiamava le autorità a parlare, ad esprimere uno alla volta la gioia per quell’evento tanto atteso. Ciascuno prendeva il microfono e ricamava con garbo la propria soddisfazione, rivolgendosi alla platea ma senza smettere un istante di cercare Federico con lo sguardo. In realtà parlavano a lui ma non lo vedevano, e ruotavano impercettibilmente gli occhi intorno per cercare di scorgerlo da qualche parte. Perché Fellini era lì, ma invisibile. Vi dico come è andata, o almeno come è sembrato a me, dal momento che c’ero anch’io, in quarta fila, tra i privilegiati. L’organizzazione aveva regolato al meglio ogni dettaglio, e a ben giudicare non c’erano stati intoppi, tutto era filato liscio. Sì, non era mancato qualche accenno di scontentezza da parte di chi riteneva di essere stato escluso ingiustamente, ma null’altro che mugugni; per tutti contava assai più la festa, l’abbraccio a Federico, al quale gli abitanti di Rimini, a dispetto di tante maldicenze, erano sempre restati sinceramente legati. Federico che tornava a casa era indistintamente avvertito come un sollievo, la fine di un incubo troppo a lungo protratto: scontri, risse, frizioni, sospetti, incomprensioni, avevano avvelenato per troppi anni quel rapporto d’affetto, quando lui era vivo e anche dopo morto. Finalmente i riminesi l’avevano riaccolto tra loro, dentro le gelose mura, potevano saziarsene a volontà.

Gli oratori volgevano la testa, sapevano che c’era e non riuscivano a scoprire dove. Sullo schermo del cinema campeggiava una suggestiva fotografia in bianco e nero: al centro c’era lui, con megafono e cappello, seduto sulla poltroncina da regista, intento a dare istruzioni prima di girare la scena, a personaggi che non vedevamo. In quella posizione dominante, l’impressione era che il regista si rivolgesse proprio al pubblico seduto  in platea: eravamo noi il set da guidare. Infatti in piedi  alla sua destra, attento, c’era il fidato direttore della fotografia Peppino Rotunno, e a sinistra accanto alla macchina da presa, il secondo operatore ai fuochi Piero Servo. La fotografia, che riempiva tutto lo schermo, raccontava come meglio non si potrebbe l’artista al lavoro, ed era stata scattata, a osservarla con occhio avvezzo, proprio dentro il Teatro 5 di Cinecittà durante la lavorazione di Amarcord. Ogni tanto i personaggi chiamati a parlare sbirciavano quell’immagine; non ultima la nipote di Fellini, l’ex bambina dai capelli rossi che Federico, per giocare, diceva si fosse arrugginita a forza di attendere dai genitori di essere messa al mondo. Anche lei a più riprese alzava gli occhi e si voltava verso lo schermo augurandosi forse che lo zio, da un momento all’altro, scendesse da quella sedia e  venisse a darle una mano mentre, emozionata, dipanava sentimenti di  sapore familiare.  Andrea Gnassi, il sindaco della città, a cui nella veste di padrone di casa era stato assegnato il primo intervento, non riusciva a celare la medesima ansia di individuare nel pubblico Federico, consapevole dentro di sé di indirizzare a lui e nessun altro le sue alate parole di riconciliazione, ora che tutti i problemi erano superati. Si poteva persino ridere di quella volta che gli erano state pomposamente consegnate le chiavi di un casetta sul porto risultata, all’atto pratico,  ricoperta di debiti e ipoteche. Un brutto inciampo da cancellare, una sòla come dicono a Roma, su cui stendere un pietoso velo; un gesto gaglioffo figlio di altri tempi quando al posto dei doni in oro zecchino, si rifilavano breloque di princisbecco.

Anche Sergio Rubini, commosso, cercava insistentemente con gli occhi il Maestro, che al primo provino, sfogliando il suo book, gli aveva dichiarato: “Complimenti, lei è l’unico attore che assomiglia alle sue fotografie”.  Tuttavia alla fine del colloquio aveva anche aggiunto: “Lei ed io ci rivedremo per lavorare insieme.” Come poi era realmente accaduto, dopo quattro anni, un miracolo che gli aveva cambiato la vita. E Dante Ferretti?  Lui, lo scenografo da premio Oscar assalito da fotografi e cameraman, il più osannato tra ospiti per aver fantasiosamente ridisegnato quella sala illustre in stile “romagnol – hollywoodiano”, sembrava il più spaesato di tutti; era fin troppo evidente che aspettava da un momento all’altro l’ingresso del Convitato di Pietra in quell’estroso set di cartapesta, a pretendere le modifiche da eseguire prima della sospirata approvazione. Ai cronisti che lo tempestavano di domande chiedendogli se Fellini sarebbe stato contento di una trasformazione così esuberante del suo cinema prediletto, rispondeva: “Io dico di sì, tanto lui non mi può smentire!” E strappava la risata degli astanti, muovendo qua e là gli occhi, in attesa tra sé e sé di essere richiamato alla realtà dalla voce sottile e perentoria di Federico: “Dantino, ma che hai combinato!”

Persino il Ministro della Cultura chiamato buon ultimo a coronare gli omaggi, si era abilmente smarcato dal suo ruolo ufficiale, lasciando prevalere la vena letteraria sull’oratoria istituzionale; e aveva  preferito parlare di una coincidenza che lo commuoveva. Nel bar di Ferrara che frequentava fin da ragazzo, c’era un signore che aveva chiamato i suoi numerosi figli Primo, Secondo, Terzo, Quarto, Quinto, Sisto, Settimio, Ottavio fino a quando, stanco di tanta prole, aveva deciso di concludere la serie imponendo al successivo nascituro il nome di Ultimo. Ma poi, contraddetto dai fatti, aveva dovuto rimediare con il nome di Sèguito. Nel coro delle risate il Ministro confidava di aver a un certo punto chiamato al telefono Tonino Guerra per sapere se quella storiella messa in bocca al barbiere di Amarcord provenisse dal suo bar, magari attraverso Giulietta Masina che frequentava spesso la città estense in cui viveva il fratello Mario. Tonino aveva negato, ma lui per non deludere gli amici, aveva riferito che sì, Fellini si era proprio ispirato a loro per quella sequenza. Ed era giusto così, spiegava, perché Amarcord non appartiene soltanto a Rimini, ma a tutta la Romagna e anzi al mondo intero! Insomma, anche nelle parole del Ministro, palesemente turbato, c’era una lodevole confusione tra realtà e finzione, come se fossimo entrati tutti insieme appassionatamente nel film che tanto amava.

Solo in quel momento, dalle ultime file, si era alzato un signore anziano a cui nessuno aveva fatto caso; poteva avere circa ottant’anni, portati con decoro. Indossava l’abito buono della festa, benché modesto, e avanzava tra i sedili tenendo la sciarpa intorno al collo, sul braccio il giaccone e in mano un cappelletto rigido da ferroviere. Chi l’aveva invitato? Lui non sembrava darsene cura, procedeva a passi decisi verso le prime file come fosse previsto dal cerimoniale. Le pur solerti hostess non avevano osato fermarlo, incapaci di prendere una decisione. Il suo volto nobilmente invecchiato aveva tratti familiari alla platea, ma nessuno ricordava con precisione chi fosse. Serpeggiavano bisbigli, sussurri concitati, qualche imbarazzato colpo di tosse. L’uomo aveva raggiunto intanto la  postazione sotto lo schermo, e senza troppi preamboli aveva iniziato a parlare con voce dolce e cristallina, quasi da adolescente: “C’ero io solo quella mattina, quando lui è partito. La banchina era deserta a quell’ora antelucana e io gli sono corso incontro: “Moraldo, Moraldo! Dove vai, parti?” “Guido…!”  Mi aveva sussurrato sorpreso, salendo i grandini del vagone; “Sì parto…”   “E dove..?” “Non lo so, parto, non lo so.” “Ma che cosa vai a fare a Roma?” “Devo partire, vado via..” “Ma non stavi bene qua?”

Non mi ha risposto, ed io gli avevo gridato mentre il treno si avviava: “Ciao Moraldo, ciao! Addio!” “Addio Guido!” Mi aveva salutato lui con la mano, prima di reclinare il capo sulle braccia appoggiate all’orlo del finestrino, mentre la città sfuggiva via.”

In quel momento, nel silenzio generale, l’uomo si era messo in testa il cappelletto rigido, con la visiera, e  il suo sembiante era tornato d’un tratto adolescente, impossibile non riconoscerlo: era Guido, il piccolo ferroviere, l’unico riminese che aveva accompagnato Moraldo alle partenza, quella mattina all’alba dopo la festa di carnevale, mentre gli amici di sempre nei letti caldi delle loro case, dormivano ignari abbracciati ai propri sogni.

Alle parole del vecchio ferroviere la platea s’era voltata all’unisono verso il fondo: Federico era lì, in mezzo alla folla dei suoi concittadini. Ora sì che tutti lo vedevano, il sindaco, il ministro, il governatore, la nipote Francesca, Rubini, Ferretti, Andrea Purgatori. Era scoppiato un applauso fragoroso, interminabile; sembrava che il Fulgor, appena ricostruito, fosse sul punto di crollare, quasi non reggesse a quell’ondata di affetto incontenibile.

“Bentornato a casa, Federico!”


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