Reporter senza frontiere: nel 2017 morti 65 giornalisti, 10 erano donne

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Nel 2017 sono stati uccisi nel mondo 65 giornalisti, tra cui 10 donne.
Il Rapporto di Reporters sans frontières nel tracciare la mappa del rischio per gli operatori dell’informazione evidenzia come l’anno che si appresta a concludersi sia stato quello con il numero di vittime più basso degli ultimi 14 anni.

Nel 2016 furono 79. Un calo, dunque, del 18% ma sempre troppi: 50 colleghi professionisti, 7 blogger e 8 collaboratori dei media.

Anche se in costante ridimensionamento siamo comunque a cospetto di un dato preoccupante.

Se ci si sofferma al dato macroscopico, il 2017 potrebbe sembrare un anno meno infausto per la libertà di stampa. Ma così non è se si tiene conto delle condizioni in cui in molti paesi si svolge la professione e le limitazioni messe in atto in tante realtà in tutto il mondo.

Se le vittime diminuiscono, aumentano gli arresti e i sequestri. A oggi infatti sono 326 nel mondo i giornalisti in carcere, 54 in ostaggio e 2 scomparsi.

Nella classifica di Rsf la “prigione più grande per gli operatori dell’informazione” risulta la Cina, mentre per il Committee to Protect il primato spetta alla Turchia.

Il Comitato per la protezione dei giornalisti nella relazione che accompagna il report diffuso qualche giorno prima rispetto a quello dei colleghi francesi afferma che la retorica nazionalista del presidente Donald Trump e l’etichettatura dei media critici come divulgatori di fake news hanno legittimato in qualche modo l’azione repressiva di questi paesi che continuano a imprigionare i colleghi che non si piegano alle logiche dei regimi che li governano.

Entrambi gli organismi internazionali denunciano il fallimento della comunità internazionale, incapace di fare pressioni sui peggiori governi che impongono il bavaglio ai media affinché migliorino le condizioni della libertà di stampa nei propri paesi.

Le repressioni più vaste sono state attuate in Turchia, con 73 giornalisti finiti dietro le sbarre nell’ultimo anno, portando a oltre 170 il totale dei colleghi arrestati dopo il fallito colpo di Stato del luglio 2016.

Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan aveva già impresso un giro di vite sulla stampa nei primi mesi del 2016 accelerato nell’ultimo anno e mezzo. Gravissime le imputazioni rivolte ai giornalisti sospettati di aver supportato la presunta organizzazione terrorista guidata dall’imam auto esiliato negli Stati Uniti Fethullah Gülen, ritenuto l’ideatore dello sventato push per deporre Erdogan.
Le autorità giudiziarie hanno rivolto loro l’accusa di terrorismo basandosi esclusivamente sull’utilizzo di un’app di messaggistica, la Bylock, che i militari golpisti avevano usato come mezzo di comunicazione nella notte tra il 15 e il 16 luglio.
In Egitto il presidente Abdel Fattah el-Sisi non ha neanche avuto bisogno del paravento di un fallito golpe per inasprire le rappresaglie nei confronti della stampa libera.
Più della metà dei giornalisti imprigionati in Egitto, 20 nel 2017, è inoltre in cattive condizioni di salute.
Tra questi il fotoreporter Mahmoud Abou Zeid, noto come Shawkan, arrestato il 14 agosto 2013 mentre copriva per l’agenzia fotografica Demotix di Londra una violenta repressione con centinaia di vittime delle forze di sicurezza egiziane in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, dove si stava svolgendo un sit-in della Fratellanza musulmana.
In carcere da quattro anni lui e i 738 co-imputati del processo sono accusati di possesso di armi, assemblea illegale e omicidio.
Shawkan è fortemente anemico e ha bisogno di continue trasfusioni di sangue. Nonostante la sua condizione gli sono state negate le cure in ospedale e da mesi è in attesa di un’udienza in Tribunale sulla richiesta degli avvocati di concedergli gli arresti domiciliari. Rinviata di volta in volta, la prossima convocazione è fissata per il 23 dicembre.
In Egitto come in Turchia e Cina, le imputazioni di gran lunga più diffuse sono di natura anti-governativa: il 74%.
Il Cpj ha accertato che i governi repressivi della libertà di stampa usano leggi vaghe e anticostituzionali per intimidire i giornalisti critici, spesso nel silenzio della comunità internazionale.
Addirittura, in 35 sono incarcerati senza alcuna accusa ufficiale e decine di casi sono stati trattati senza un giusto processo.
In paesi come l’Eritrea e la Siria, i giornalisti sotto la custodia del governo non hanno contatti con familiari e avvocati da anni.
Emblematica la vicenda dei sette siriani in carcere a Damasco da almeno quattro anni, tra voci non confermate di torture ed esecuzioni.
Il passaggio del rapporto che desta maggiore preoccupazione è quello in cui si evidenza come la gran parte dei giornalisti uccisi fossero vittime mirate.
Appare evidente che la violenza contro gli operatori dell’informazione sia sempre più consapevole.
I nostri colleghi che lavorano in contesti di guerra o in realtà dove i diritti fondamentali vengono costantemente violati sono sempre più esposti a ritorsioni e uccisi per il lavoro che fanno.
Per non parlare di quegli operatori dei media che operano in realtà come Afghanistan, Iraq e Yemen costretti a convivere con la censura e il terrore oppure a fuggire, condizione che ha determinato un vero e proprio buco nero dell’informazione.
Insomma difficoltà crescenti per la categoria a svolgere la professione nel migliore dei modi. Non a caso sono sempre meno le testate disposte a mandare inviati in paesi dove i rischi sono troppo elevati.
Per questo appare sempre più urgente la nomina di un rappresentante speciale per la protezione dei giornalisti. Il 2017, con l’arrivo di un nuovo segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si sperava potesse essere l’anno della consapevolezza su questa inderogabile decisione. Così non è stato. Aspettiamo fiduciosi il 2018.


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