Pena di morte, 105 gli Stati che l’hanno abolita. I poveri sono i più colpiti

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In occasione della XV Giornata mondiale contro la pena di morte, Amnesty International ha chiesto alla minoranza di stati che ancora ricorrono alla pena capitale di unirsi alla tendenza abolizionista. Ricerche evidenziano che le persone provenienti da ambienti socio-economici sfavorevoli sono colpite in modo sproporzionato

ROMA – In occasione della XV Giornata mondiale contro la pena di morte (oggi, 10 ottobre), Amnesty International ha chiesto a quella minoranza sempre più isolata di stati che ancora ricorrono alla pena capitale di prendere iniziative per unirsi alla tendenza abolizionista globale.
Quarant’anni fa, Amnesty International favorì l’adozione della Dichiarazione di Stoccolma, il primo manifesto abolizionista internazionale. Emanata nel 1977, la Dichiarazione chiedeva a tutti gli stati di abolire completamente la pena di morte. “Quando uno stato usa il suo potere per porre fine alla vita di un essere umano, è probabile che nessun altro diritto resti inviolato. Lo stato non può dare la vita e si presume che non dovrebbe neanche toglierla”, recitava la Dichiarazione.

I dati. All’epoca della Dichiarazione, solo 16 stati (otto in Europa e altrettanti nelle Americhe) avevano abolito completamente la pena di morte, nelle leggi o nella prassi. Quel numero ora è salito a 105. Altri 36 stati hanno abolito la pena capitale per i reati ordinari o ne hanno di fatto sospeso l’uso pur mantenendola in vigore.
Nel 2016 solo 23 stati hanno eseguito condanne a morte e un piccolo gruppo di essi (Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan) sono stati responsabili della stragrande maggioranza delle esecuzioni.
Amnesty International chiede oggi a tutti gli stati che ancora mantengono in vigore la pena di morte di abolirla e, in attesa dell’abolizione completa, di istituire immediatamente una moratoria sulle esecuzioni.

La Giornata mondiale contro la pena di morte. “Quest’anno la Giornata mondiale contro la pena di morte si concentra sul legame tra la pena capitale e la povertà – ricorda l’organizzazione -. Le ricerche evidenziano che le persone provenienti da ambienti socio-economici sfavorevoli sono colpite in modo sproporzionato dal sistema giudiziario, inclusa la pena di morte. Queste persone difficilmente possono permettersi una difesa efficace. La capacità di affrontare il sistema giudiziario dipende anche dal livello di alfabetizzazione e dalla disponibilità di reti sociali influenti cui affidarsi”.
Recenti analisi condotte da Amnesty International sull’uso della pena di morte in Cina hanno rivelato una preoccupante tendenza: “La pena capitale colpisce in modo sproporzionato le persone povere, quelle con livelli più bassi di istruzione e coloro che appartengono alle minoranze etniche o religiose – si afferma -. Solo la totale messa a disposizione dei dati sulla pena di morte da parte delle autorità cinesi potrebbe chiarire l’effettiva dimensione di questo fenomeno”.

In Arabia Saudita, il 48,5 per cento di tutte le esecuzioni registrate da Amnesty International dal gennaio 1985 al giugno 2015 ha riguardato cittadini stranieri, la maggior parte dei quali lavoratori migranti senza alcuna conoscenza della lingua araba, con cui si svolgono gli interrogatori e i processi, spesso in assenza di adeguati servizi d’interpretariato. “Le ambasciate e i consolati non vengono informati del loro arresto e persino della loro esecuzione. In alcuni casi le famiglie non ricevono il preavviso dell’esecuzione e non ottengono indietro i corpi dei loro parenti messi a morte”.

Gli appelli di Amnesty International. In occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte, Amnesty International lancia un appello in favore di Hoo Yew Wah, nel braccio della morte della Malesia. Arrestato nel 2005, è stato processato e condannato a morte per traffico di droga. Amnesty International chiede alle autorità malesi di esercitare clemenza commutando la sua condanna a morte.
“Hoo Yew Wah proviene da un ambiente socio-economico sfavorevole – ricorda Amnesty -: a 11 anni ha lasciato la scuola per fare il cuoco in un ristorante di strada. All’epoca del reato aveva 20 anni e non aveva precedenti penali. Ha chiesto perdono al sultano dello stato di Johor, che ha il potere di concedergli clemenza. “Se mi dessero la possibilità, vorrei provare che sono cambiato: cercherei un lavoro serio e trascorrerei la mia vita prendendomi cura di mia madre”, ha dichiarato.

Il traffico di droga non rientra nella categoria dei “reati più gravi” ai quali secondo il diritto internazionale dev’essere limitata l’applicazione della pena di morte. In più, per il resto commesso da Hoo Yew Wah la pena di morte era obbligatoria, circostanza vietata dal diritto internazionale.
Ricorda Amnesty International: “Hoo Yew Wah è stato condannato a seguito di una dichiarazione fatta al momento dell’arresto in lingua mandarina, successivamente tradotta in malese dalla polizia, in assenza di un avvocato. Inoltre, secondo il suo racconto, il giorno dell’arresto gli agenti gli spezzarono un dito e minacciarono di picchiare la sua fidanzata, se non avesse firmato la dichiarazione. I giudici non hanno tenuto conto di questa denuncia”.
Amnesty International chiede ai suoi sostenitori di inviare appelli in favore di altri condannati a morte, tra i quali gli ultimi 14 prigionieri nel braccio della morte del Benin, che nel frattempo ha abolito la pena di morte, e Ammar al-Baluchi, che potrebbe essere condannato a morte dalle commissioni militari statunitensi dopo essere stato torturato durante la prigionia a Guantánamo Bay.

Da redattoresociale


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