“Ciao”, l’incontro fantastico tra un padre e un figlio in scena al Quirino

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Roma, una sera d’agosto. Avvolto nel silenzio della sua casa – la famiglia è già partita per le vacanze – al terzo piano di via Velletri, lo stesso stabile in cui è nato, Walter Veltroni ripensa a suo padre, quel padre che non ha mai conosciuto, scomparso quando lui aveva solo un anno. Di lui non ha ricordi, se non quelli che ha costruito nel tempo, attraverso una ricerca quasi ossessiva; ha “messo insieme” quel padre unendo i tanti tasselli: le registrazioni delle radiocronache, le foto, i racconti di amici e colleghi, il sorriso di sua madre. Eppure, ancora a 60 anni quel vuoto si ripresenta così forte e così lacerante. “Ciao” è dunque l’incontro fantastico tra un padre, Vittorio, morto a soli 37 anni nella seconda metà degli anni ’50 e un figlio, Walter, ormai sessantenne. Un incontro quasi casuale, sul pianerottolo di casa, e una serata trascorsa insieme, per la prima e unica volta, ripercorrendo i ricordi, raccontando l’Italia degli anni ’50 dell’uno e quella contemporanea dell’altro. Due mondi a confronto: quello degli ideali di Vittorio, del senso di appartenenza, dello spirito di squadra, quello anche della RAI degli albori che, non disponendo delle immagini del funerale di Stalin mandò in onda immagini di repertorio di un altro funerale russo, dove però a portare la bara era lo stesso Stalin, e quello di Walter, in cui lo spirito collettivo si è perso, ma che è anche il mondo della tecnologia, delle informazioni in tempo reale, dei selfie con lo smartphone.

Parlano delle loro vite e di quello che poteva essere e non è stato, in una chiacchierata senza tempo, in un percorso che evita il rancore e cerca vicinanza, in una ricerca disperata delle proprie origini.  

In scena al Teatro Quirino di Roma, dal 10 al 22 ottobre, “Ciao” è uno spettacolo a due voci – Massimo Ghini nei panni di Walter e Francesco Bonomo in quelli del giovane Vittorio –  un atto unico a scena fissa di poco più di un’ora. Interessante la regia di Pietro Maccarinelli che utilizza le “finestre” del salone di Veltroni come schermi atti a mostrare immagini e filmati d’epoca. Emozionante affresco di un’Italia profondamente cambiata nell’arco di poco più di un cinquantennio, di un rapporto mancato e così voluto, lo spettacolo manca complessivamente di quel pathos, di quella poesia e di quella sofferenza malinconica tanto genuina rinvenibile dalla prima all’ultima pagina del commovente libro di Walter Veltroni (Rizzoli, 2015). Del resto l’autore non ha raccontato una storia, ma ha avuto il coraggio di raccontare la propria, e nessun interprete potrebbe renderla allo stesso modo.


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