Paolo Villaggio…. “paura in palcoscenico”. Ricordando il suo “Delirio di un povero vecchio”  recitato a inizio millennio

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Burbanzoso e caracollante, trafelato come reduce dall’aziendale marcialonga di Fantozzi, Paolo Villaggio raggiunse il proscenio, prese di mira due acchittate ‘Madame Pompadour’  di prima fila e rese ancor più contundente   il monologo in cui si esibiva quella sera del 2002, in un grande teatro romano che non ricordo quale fosse.  “Se afferro quel gaglioffo di Elio e le Storie tese gli cambio i connotati. Come si azzarda strimpellare  Fossi figo? E nemmeno il coraggio di esporsi? Ma voi lo sapete che il vero, unico, irripetibile ‘figo mancato’ sono io… e quel mascalzone mi ha copiato l’idea? Cosa dovrei fare? Chiedere danni, risarcimento, duello all’alba e con arma a mia scelta?  Ma voi avete idea di quanto penai  io …. e continuo a penare, per quella bellezza estetica cui ho sempre anelato, e che il Padreterno, vendicativo, mi ha negato? Vendicativo si: perché una zingara sarda incontrata sul Gennargentu insieme al mio povero amico De Andrè, mi assicurò che in una vita precedente lui era me e io ero lui, quindi bellissimo, aitante, fascinoso come il sole…. ‘Ma lei è intelligente, arguto, fustigatore, poliedrico…’, mi rincuora qualcuno, e non sa che io me ne sbatto di esserlo… che avrei fatto il patto con Faust pur di essere sultano di un harem…  cretinotto e sciupafemmine sino alla fine dei miei giorni…. Invece di farmi il mazzo cercando come tartufi  battute, salacità, scemenze da cabaret…”

Sembrava sincerissimo e scarnificato il caro Paolo quella sera, sembrava che improvvisasse e non escludo che lo stesse facendo, tenuto conto che – a ruota libera- proseguì. “Io ho una fottuta paura di invecchiare e di morire..ci scherzo su, sembro cinico e serioso per  scaramanzia …faccio finta di essere nichilista e nel gorgo letale della cupio dissolvi..La verità è che vorrei campare più di Matusalemme senza nulla perdere delle mie attrattive, della mia virilità, di un bel corpo poderoso e palestrato”.  Era sgomento,  Villaggio, quella sera, come se la vita gli si fosse rivelata quell’ammaliante  ‘cul de sac’ che in pratica  è per (quasi) tutti-   e che non ha nulla a che vedere con il ventre materno (l’inconscio desìo di ritornarci) di cui pontificano santoni e strizzacervelli.

Bazzicava poco il teatro recitato il Villaggio che dal cinema e dalla televisione aveva tratto guadagni stratosferici. A metà degli anni novanta era stato, al Piccolo di Milano, un paonazzo- e pure un po’ pazzo- “Avaro” di Molière (tradotto, per l’occasione, da Patrizia Valduga), in uno spettacolo di solida struttura e di indubbio prestigio, diretto da Lamberto Puggelli, (con l’imprimatur di Strehler) ed un compendio di comprimari tutti di raffinato  livello, da  Giancarlo Dettori a Ottavia Piccolo, da Tommaso Ragno ad  Alessio Boni e  Pia Lanciotti, Sortendone inorgoglito ma insoddisfatto. Perché? Perché a teatro “si guadagna poco e bisogna essere troppo disciplinati”.

Mentre Paolo, per nulla venale e per nulla ‘genovese’ (stando ai luoghi comuni) si auto considerava uno dei più “clamorosi”, “impareggiabili” scialacquatori dello spettacolo italiano, incapace congenitamente di “risparmiare i quattrini per un abito di sartoria appena sarà inverno”. Probabilmente esagerava, ma della sua prodigalità sul set e anche oltre,del suo  nevrotico bisogno di compensare “con il consumo, con il denaro…mea culpa!… tutto ciò che madre natura mi ha negato in fattezze fidiache” era il primo a rammaricarsi, pur nell’esasperazione di un modello (un “decrepito” Peter Pan) su cui amava adagiarsi. Per poi correre dietro, “come un disgraziato, come uno sfrattato” al perdono di moglie e  figlioli, verso i quali nutriva tormentati (e mai del tutto svelati) sensi di colpa.

Fra realtà e finzione, ogni cosa affiorava come acqua-stagna, come spina al cuore  in quel  mosaico ‘spastico’   di  “Delirio d’un povero vecchio”. Che, fosse dipeso da lui, avrebbe preferito titolare  “serata del disonore”,   denudamento dell’anima in braghe (paradosso, grottesco, iperbolico, autobiografico)   che il  Dissacratore di professione imbastì, districò e condusse al termine (due ore e passa  di soliloquio) da assoluto  genio comico della satira e dell’automartirio, ipotizzato come “Gran cerimoniale di Arrabal.

Per raccontarsi “nel modo più logorroico, esagitato, braccato che possiate immaginare”, Villaggio passava a setaccio  i brutti (“inverecondi”) disagi della sua età: l’ipocondria, la coazione a ripetere, i ricordi che incombono, il tutto amplificato e reso emblematico dalle remore, dalla pigrizia, dalle paure di un attore che non vorrebbe più esser costretto a confrontarsi con il pubblico… “Che se ti da pollice in giù sei fottuto e all’addiaccio”, come una perdurante ossessione di  adolescenze vissute invano e “sempre al verde”. Nella finzione, quindi (nella paura?), di essere invece stato figlio di famiglia abbiente.

Cosa escogitò Villaggio per  addomesticare il pubblico?  Tentò, in un abile mix di sfacciataggine e  commiserazione (di sé), di impietosire gli astanti dichiarando i suoi malanni immaginari,  e  “dunque patteggiare  un  rispettoso silenzio per  l’intero tempo dello spettacolo”  Che ovviamente proseguì, anzi caracollò  “tra  biechi trucchi di luci, gesti, musiche con cui in teatro si abbindola il pubblico”- ammise egli stesso, “vigliacco” e capace “per piaggeria” anche di  “svendere a bassissimo prezzo quella grande stronzata chiamata  carisma”

Tragico, esilarante, gogoliano- artefice e preda di uno spudorato  gramelot di suoni , invettive, catastrofe incombete- Paolo  postulava attenzione, complicità, scherno indelebile (“facciamo damnatio memoriae e chiudiamola qui”) pur di  affermare e catturare noi tutti nella sua sveviana  (“apocalittica”) sua tesi  di fondo  “che, sì, il tabacco nuocerà anche gravemente alla salute, ma il teatro può fare di peggio”.   Mandarti sul lastrico, ad esempio: vaneggiando un paradiso maomettano, a ulteriore beffa (per chi non ha il dono dell’istrione).


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