Non il sangue, ma la terra in cui nasci. Ius soli: quel diritto alla cittadinanza che mezza Italia non vuole

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Non il sangue, ma la terra in cui nasci. Da qui dovrebbe passare il diritto alla cittadinanza. Eccolo, il senso essenziale dello Ius Soli. A quanto pare, a quanto dicono i sondaggi, la maggior parte degli italiani non la pensa così. E allora non possiamo stupirci più di tanto se in Parlamento c’è una legge impantanata ormai da un anno e mezzo, una legge nemmeno così rivoluzionaria, in fondo, che non fa altro che facilitare un po’ l’accesso al diritto di essere cittadini italiani ai bambini nati in Italia da genitori stranieri. La norma è stata approvata dalla Camera nell’ottobre del 2015, ma al Senato, e più precisamente in commissione affari costituzionali, non si riesce a venirne a capo. Perché la Lega Nord tenta di sabotarla in ogni modo, perché quelli di Fratelli d’Italia non ne vogliono sapere, perché i 5 Stelle hanno deciso di astenersi, perché anche nella maggioranza di governo i mugugni sono parecchi. D’altronde sono parecchi anche gli analisti che hanno addebitato la batosta del centrosinistra alle recenti amministrative in gran parte al bisogno di maggiore sicurezza per come lo percepisce il grosso degli italiani, collegandolo puntualmente al fenomeno dell’immigrazione.

La questione dei migranti è peraltro una di quelle trattate con più enfasi e spesso con meno accuratezza dai nostri media negli ultimi anni, nonostante il lavoro egregio di molti colleghi e di soggetti quali Carta di Roma che non smettono di ammonire sui rischi di ridurre a vicenda emergenziale e di ordine pubblico quello che è un complesso elemento strutturale, e semmai dai tragici contorni umanitari, dei tempi che siamo chiamati ad abitare.

La stampa, quando parla delle donne e degli uomini che arrivano in Italia in cerca di un futuro migliore, ha non di rado la colpa di non concentrarsi a sufficienza sulle dinamiche storiche e politiche da cui le ondate migratorie contemporanee sono generate, né tantomeno sulle condizioni reali del sistema dell’accoglienza in Italia, anche e soprattutto confrontando la nostra situazione con quella degli altri Paesi europei. Poi, basta incappare per puro caso in certe trasmissioni televisive, c’è anche chi vende la propria propaganda xenofoba per informazione: lì c’è dolo, né più né meno, lì bisognerebbe intervenire, sanzionare e impedire certi comportamenti. È triste pensare che i rallentamenti dell’iter dello Ius Soli al Senato possano dipendere in parte anche dalle smorfie in diretta tv di Daniela Santanchè in uno dei tiri al piccione a cui vengono sottoposti i migranti e gli sparuti sostenitori della necessità di un’integrazione concreta e ragionevole invitati in questo o quello studio, ma a guardare bene nell’occhio del circolo vizioso propaganda-opinione pubblica-recezione e reazione politica c’è da temere che sia davvero così. Le inquadrature ad arte sulla Santanchè o sul Giordano di turno invitati a scuotere la testa mentre il malcapitato parlamentare di sinistra o il rappresentante delle associazioni che si occupano di accoglienza stanno difendendo i propri punti di vista, che a me paiono patetiche e sfrontate, per molti spettatori hanno senza dubbio un effetto confortante. L’effetto cioè di sentirsi legittimati e anzi incoraggiati a scuotere anche loro la testa al cospetto di chi si mette a difendere le ragioni dei migranti al bar sotto casa.

Proprio ieri, e proprio al bar, a me è capitato di ascoltare un urticante dialogo tra due clienti sul tema della legittima difesa: “Mi ha detto il maresciallo dei Carabinieri che bisogna sparagli sempre e comunque in faccia, perché se lo prendi alla schiena poi rischi di andare in galera, il giudice potrebbe dire che lo hai colpito mentre stava scappando”. E l’altro ad annuire, a infuocarsi, a rincarare la dose. Se non avessi conosciuto il barista, a cui non volevo creare imbarazzi, non me ne sarei rimasto zitto come invece ho fatto. Che poi, con certa gente, si può litigare e non si può parlare. Quel che invece ho fatto, qualche giorno fa, è stato firmare un appello per sollecitare il Parlamento a darsi una mossa con la legge sullo Ius Soli. E l’ho fatto insieme a molti altri intellettuali italiani: Saviano, la Maraini, Erri De Luca, Zerocalcare, Vecchioni, Arpaia, Paolo Di Paolo, in tutto più di duecento tra scrittori, registi, cantanti, fumettisti, giornalisti. Gli appelli degli intellettuali, già. Serviranno davvero a qualcosa?

Bella domanda. A cui non so rispondere. O meglio, a cui forse non voglio rispondere come mi verrebbe da rispondere. Perché oramai sono troppo abituato ad avere a che fare con la classe dirigente di questo Paese per non sapere che le voci del famigerato “mondo della cultura” (sic sul sito di “Repubblica”) vengono ascoltate tendenzialmente pochissimo. D’altronde chi li legge i libri? Chi ci va ai concerti? Chi ci va al cinema? Tendendo fuori i fan di Fabio Volo, Laura Pausini e Carlo Vanzina, voglio dire. I politici, se vai da loro a chiedere sostegno o proporre qualcosa, fanno come i gestori dei locali con i ragazzi che vogliono andare a suonare: quanta gente porti con te? Ecco, la gente che portano i firmatari di quest’appello purtroppo è poca. E allora il sospetto è che un appello del genere, così come le pagine degli inserti culturali del fine settimana, sia in fin dei conti rivolto non tanto al Parlamento o alle persone comuni quanto a coloro che fanno parte della stessa cerchia di quegli scrittori, registi, cantanti, fumettisti, giornalisti. Un circolo, pure questo, che magari non sarà vizioso ma che faticherei non poco a definire virtuoso. E quindi, per carità, un appello del genere secondo me va firmato, e va firmato per il semplice motivo che la causa che propugna è sacrosanta, ma tenendo bene in mente tutti i limiti dei suoi potenziali effetti.

Quelli che vanno dietro agli intellettuali non sono abbastanza: alla gente bisogna parlare guardandola dritta negli occhi, non con lo sguardo puntato sul dito che scorre i nomi degli altri firmatari per vedere chi c’è e chi non c’è. Bisogna parlarle al bar, forse, o su Facebook, perché i giornali non li legge più nessuno, o in televisione andando a smascherare la Santanchè, Giordano e tutti i banditori che fingono di informare gli spettatori inoculandogli in realtà il veleno della paura ignorante e della rabbia. E quindi ieri probabilmente ho sbagliato, perché quei due avventori, al bar, della mia firma sotto l’appello al Parlamento di Saviano e Zerocalcare se ne fregano, e magari invece sforzandomi di trovare parole e argomenti diversi da quelli che adopero con gli amici e gli intellettuali che su certi temi sono sempre d’accordo con me, sforzandomi di mantenere la calma e di essere lucido, preciso, coerente, avrei anche potuto farli ragionare un po’ sulle sciocchezze pericolose che stavano dicendo. La prossima volta ci proverò. E il prossimo appello lo firmerò. Di sicuro di fronte alla barbarie securitaria e xenofoba che sta infestando il nostro Paese mi sento e mi sentirò in dovere di cercare di costruire argini di qualsiasi tipo. È, per tutti e per la classe intellettuale in particolare, una delle sfide più grandi di questo tempo.


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