Le macerie di una legislatura sbagliata

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È inutile star qui a ragionare su chi ha vinto e chi ha perso perché quando si reca a votare meno della metà degli elettori, la verità è che abbiamo perso tutti, a cominciare dal concetto stesso di democrazia.
La seconda amara verità è che stiamo raccogliendo, da anni, le macerie di una legislatura sbagliata, mai veramente iniziata e annegata nella fangosa palude di larghe intese che nulla hanno a che spartire con la chiarezza e la limpidezza del contesto tedesco.
Lungi da me coinvolgere il povero professor Rodotà e la sua memoria nelle beghe di questa tornata elettorale, fatto sta che la sua mancata elezione e la riconferma di Napolitano hanno segnato uno spartiacque non solo per questa diciassettesima legislatura ma per la storia del Paese, nel presente e negli anni a venire.
Perché la scelta, all’epoca, fu tra accettare la sfida di un passaggio d’epoca, di un cambiamento di fase che un mese prima aveva condotto papa Francesco al soglio pontificio e cercare, invece, di garantirsi un altro giro di giostra, all’ombra di antiche, radicate ma ormai sfilacciate certezze.
È stata decisa la linea dell’arroganza, della protervia, della conservazione, dei compromessi a ribasso e dell’esclusione dei barbari che, ormai, avevano ampiamente sfondato le porte, andando ad occupare un centinaio di scranni parlamentari alla Camera e una cinquantina al Senato.
Pur stimandolo e tenendo in considerazione la barbarie dei centouno che affossarono la candidatura di Prodi, in quell’occasione Bersani sbagliò. Sul governo Letta abbiamo già detto tutto: nulla di eccezionale ma, quanto meno, si trattava di un esecutivo rispettoso delle istituzioni e di un pluralismo ancor più necessario in un sistema sistema disastrato come il nostro.
Renzi è stato uno dei tanti errori di Napolitano: terrorizzato dall’idea di un’eventuale vittoria dei 5 Stelle alle Europee e fedele custode di equilibri che ormai non stavano più in piedi da tempo, come si è visto in questi anni anche a livello internazionale, sacrificò Letta per affidarsi ad un personaggio privo della cultura politica adeguata per sobbarcarsi un compito tanto gravoso e lo coprì per una lunga stagione, salvo poi disconoscerlo dopo il disastro del 4 dicembre di cui, spiace dirlo, ma il senatore a vita Napolitano è uno dei principali responsabili.
Ormai sono rimasti solo i cocci, forse neanche più quelli, in un sistema politico disossato, distrutto, raso al suolo dall’egoismo di leadership solipsistiche e del tutto incapaci di porre l’interesse generale davanti al proprio.
Una fiera delle vanità senza eguali, un insieme smodato di rivendicazioni in cui la collettività è la grande assente, un silenzio assordante su un voto che è stato sì locale ma ha coinvolto, comunque, milioni di elettori e città che costituiscono la spina dorsale della Nazione.
E qui entra in scena la terza triste verità di queste riflessioni. A Renzi di ricostruire il centrosinistra non importa nulla, in quanto sa benissimo che non sarebbe lui la guida della coalizione, essendo il principale fattore divisivo e non certo un collante fra le anime riottose di questo campo. Allo stesso modo, a Di Maio non importa nulla di governare, anche se non lo ammetterà mai, in quanto l’idea gli piacerebbe pure ma in cuor suo sa che il M5S non è nato per amministrare bensì, al massimo, per svolgere la funzione di un gruppo di pressione: per trasformarsi in un partito dovrebbe strutturarsi, darsi un’anima, dotarsi di regole democratiche al proprio interno, accantonare gli aspetti più folkloristici del grillismo e l’ossessione internettiana della Casaleggio Associati, ossia diventare un qualcosa di radicalmente diverso e altro rispetto a ciò che è adesso. Ci ha provato Pizzarotti, riconfermato con ampio margine a Parma, ma ha capito che per riuscirci si sarebbe dovuto mettere in proprio, e mi auguro di cuore che abbia voglia, adesso, di spendersi in prima persona per tentare di dare una mano al nuovo raggruppamento di centrosinistra che sta nascendo intorno a Giuliano Pisapia.
A Berlusconi, infine, interessano, da sempre, unicamente i suoi processi e le sue aziende. E sa bene, al pari del suo entourage, che da questo punto di vista il conservatore di sistema Renzi è assai più rassicurante dell’irruente movimentista Salvini, dunque quello delle Amministrative è stato un fuoco fatuo e i primi a saperlo sono proprio Salvini, la Meloni e il governatore ligure Toti, ben cosciente che, prima o poi, dovrà staccarsi da Forza Italia per costituire l’asse del Nord della destra a trazione leghista che si presenterà alle Politiche, con Berlusconi lasciato a fare l’Alfano della situazione. Un Alfano coi voti, sia chiaro, ma pur sempre in una posizione subordinata rispetto al PD di Renzi per i motivi extra-politici che ho esposto in precedenza.
Quanto a Salvini, il vero vincitore di questa tornata elettorale, di governare non ne ha alcuna voglia neanche lui: l’opposizione con una vasta rappresentanza parlamentare gli va benissimo e gli consente di crescere ulteriormente nei sondaggi e nei consensi; governare, al contrario, non è nelle sue corde, non ha il pragmatismo di Maroni e Zaia né l’abilità strategica di Bossi e sul piano internazionale sa benissimo che un’Italia sotto la sua guida subirebbe un isolamento che ne minerebbe l’autorevolezza, il prestigio e la liberta di movimento fino a trascinarci in un contesto weimariano.
Un contesto weimariano che, purtroppo, non può comunque essere escluso, dato che la prospettiva del voto a ripetizione, in assenza di una legge elettorale che faccia discendere la governabilità dalla rappresentanza ma contempli comunque entrambi gli aspetti, non è da escludere.
Senza contare che ormai le classi dirigenti che vediamo all’opera non hanno quasi più uno straccio di cultura: siamo di fronte ad un’orgia del potere e al desiderio generalizzato di mantenerlo il più a lungo possibile, visto che nessuno ha davvero una visione globale né un’idea di società e la capacità di indicare una prospettiva per il futuro.
Personalmente mi incuriosisce la piazza romana di sabato prossimo: vi andrò e mi auguro che Pisapia abbia la forza di restituire al concetto di centrosinistra un’anima, oltre che una rievocazione malinconico-nostalgica del tempo che fu.
Quando toccherà alla mia generazione, lo scenario con cui dovremo fare i conti sarà abbastanza simile a quello dell’immediato dopoguerra, con l’aggravante, e non è poca cosa, che oggi non esistono più né partiti solidi e strutturati né una base valoriale all’altezza né un’epopea comune in cui riconoscersi come fu, almeno nei primi tre decenni della vicenda repubblicana, l’epica della Resistenza. Al massimo, oggi, ci è rimasto lo storytelling: va bene per i social network e per i talk show ma la gente quando si reca alle urne, se decide di recarvisi, sceglie in base ai propri problemi quotidiani; problemi cui la politica non sembra più essere in grado di fornire una soluzione.


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