Pensioni, sale sulle ferite

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Andare in pensione prima di 66 anni e 7 mesi rischia di rimanere un miraggio. Anche l’incontro tra governo e sindacati del 4 maggio è andato a vuoto. Più o meno si è ripetuta la stessa scena della precedente riunione, quella del 6 aprile, un analogo buco nell’acqua. E c’è scetticismo anche sull’esito del prossimo confronto, fissato per il 10 maggio.

I sindacati sono preoccupati: non vedono novità né sulla “fase uno” della riforma delle pensioni né sulla “fase due”. Non è emersa alcuna novità sull’anticipo della pensione (Ape sociale e volontaria), né sulla cosiddetta “quota 41” per i lavoratori precoci, né per il rinnovo di “opzione donna”. Nell’incontro al ministero del Lavoro tra l’esecutivo e Cgil, Cisl, Uil non c’è stato alcun passo in avanti. Gli ostacoli sono doppi, normativi-burocratici e di risorse, da parte dell’esausta finanza pubblica. Eppure l’Ape sociale, quella destinata a disoccupati e lavoratori inabili e con il costo a carico dello Stato, sembrava cosa fatta. In “rampa di lancio” sembrava che fosse anche il pensionamento anticipato per i cosiddetti lavoratori precoci, quelli che hanno cominciato ad andare in fabbrica o in un ufficio da ragazzi. Invece niente: i decreti attuativi per rendere operativa la normativa stabilita nella legge di Bilancio 2017, non si sono ancora visti.

Né, tantomeno, ci sono stati passi in avanti sugli altri importanti temi come l’Ape volontaria (il costo finanziato dalle banche e successivamente rimborsato a rate da chi ha lasciato il lavoro prima del tempo) e le pensioni per i giovani.

C’è da rivedere la riforma Fornero. L’alto e improvviso innalzamento dell’età pensionabile, realizzato nel 2012 da Elsa Fornero, la ministra del Lavoro del governo Monti, ha contribuito fortemente a tagliare la spesa pubblica, quando l’Italia era sotto attacco della speculazione finanziaria internazionale, ma ha provocato “gravi danni collaterali”. Ha colpito pesantemente sia gli anziani sia i giovani: i primi sono stati costretti a rimanere a lavorare anche quando la prestanza fisica e intellettuale non lo permette più, i secondi sono rimasti al di fuori del sistema produttivo perché i genitori non potevano andare in pensione.

Non solo. Le imprese alla ricerca di manodopera giovane, alle volte hanno continuato ad andare avanti alla meno peggio mentre altre volte sono ricorse alla cassa integrazione e ai licenziamenti per realizzare un rinnovamento generazionale. È scoppiato il caos previdenziale. Tutti i governi successivi a quello del tecnico Mario Monti sono stati sommersi dalla marea degli “esodati”.  Ben 100 mila lavoratori rimasti senza salario e senza pensione sono stati “tutelati” con interventi di emergenza e tampone mediante ben 8 “salvaguardie”, con costi altissimi per le finanze pubbliche.

Ma una revisione strutturale della legge Fornero, che introduca maggiore flessibilità nell’uscita dal lavoro, non c’è stata. Matteo Renzi ci ha provato quando era presidente del Consiglio, siglando un accordo con i sindacati lo scorso settembre poi riversato nella legge di Bilancio 2017, ma finora è rimasto lettera morta. Lo stesso discorso vale per Paolo Gentiloni. Il presidente del Consiglio non solo si è fatto carico della “fase uno” della riforma delle pensioni stabilita dal governo Renzi, ma ha anche annunciato la “fase due” rimasta finora lettera morta.

Certo ha inciso la scarsità di risorse pubbliche. In queste settimane poi, Gentiloni ha dovuto affrontare altre due grane impreviste: la manovrina economica (circa 3 miliardi di euro) chiesta dalla commissione europea per ridurre il deficit pubblico e il nuovo tracollo dell’Alitalia (per ora 600 milioni di euro di prestito ponte per impedire il fallimento della compagnia aerea). Per le pensioni anticipate sono rimasti ben pochi fondi. Ma sarà difficile per il presidente del Consiglio non trovare una soluzione almeno per l’Ape sociale, il fronte più caldo del disagio sociale. C’è un’inerzia pericolosa. Gentiloni rischia di gettare sale sulle ferite degli aspiranti pensionati.

Fonte: sfogliaroma.it


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