Unci Maka, Nonna Terra

0 0

Sulla tomba di Toro Seduto vicino a Mobridge nella riserva di Standing Rock, c’è una lapide con la sua frase più celebre: «Quale accordo fatto con l’uomo bianco hanno rotto i Lakota? Nessuno. Quale accordo ha rispettato l’uomo bianco fra quelli fatti con i Lakota? Nessuno».

di Ludovico Basili, Walter Nastasi, Roberto Valenti
(Istituto EcoAmbientale)

Lo scorso 23 febbraio gli indiani d’America sono stati costretti ancora una volta ad abbandonare la propria terra.

Nonostante il loro spirito combattivo, alla fine le migliaia di membri della tribù di indiani Sioux di Standing Rock che si opponevano al passaggio di un oleodotto voluto dal governo e dalle multinazionali in violazione dei trattati firmati in difesa delle terre indiane, nel North Dakota, hanno perso la battaglia pur avendo resistito fino all’ultimo: sono state fermate dieci persone che cercavano di impedire l’accesso degli agenti nell’accampamento. Come cerimonia di addio hanno acceso una ventina di fuochi. È un’immagine forte a cui è difficile sottrarsi.

Su The Guardian Bill McKibben ha scritto che «quando i manifestanti nativi americani seduti davanti ai bulldozer per cercare di proteggere le tombe degli antenati sono stati fatti sgomberare con i cani, le immagini riportavano a quelle delle proteste contro la segregazione razziale del ‘63 in Alabama, quando il capo della polizia James Connor, detto “il toro”, aveva sguinzagliato per l’appunto i cani contro i leader dei diritti civili. L’accampamento dei Sioux, con i suoi tepee e il fumo che ne usciva sembrava preso da un dipinto del 1840. Ma non era costituito da una sola tribù: erano rappresentati tutti i nativi del Nord America. Le bandiere di più di 200 nazioni indiane erano allineate lungo la strada sterrata che conduceva all’accampamento. Standing Rock, come Little Big Horn o Wounded Knee, da oggi appartiene alla nostra storia».

A nulla è servita anche “difendi Unci Maka”, la manifestazione che il 10 marzo ha visto sfilare per due giorni nelle strade di Washington, a duemila e cinquecento chilometri dalla loro terra, Lakota Sioux, Cheyenne, Arapaho, Corvi, Cherokee. Hanno danzato, ma cosa può una danza contro un governo che ha scelto, per il secondo più importante ministero dell’Amministrazione, Rex Tillerson, il boss della Exxon Mobil, un grande sciamano del liquido nero? I leader della marcia, molti dei quali erano donne, si aggrappano a uno dei tanti, effimeri trattati che il governo dei soldati blu ha firmato con le nazioni della Grande Prateria a Fort Laramie, nel 1851, e che garantiva ai Sioux il controllo delle loro terre in cambio del diritto di passaggio delle carovane dei pionieri e di pochi dollari mai versati. Hanno tentato l’ultima grande battaglia contro il Uasìchu”, l’uomo bianco ”, in lingua Lakota, “colui che si prende il grasso e lascia le ossa agli altri.

È stato l’ultimo atto di una battaglia apertasi nell’aprile 2016, quando gli indiani appartenenti a più di duecento tribù, forti del sostegno di decine di organizzazioni ambientaliste americane, hanno iniziato la loro lotta contro la Dakota Access Pipeline, l’oleodotto che attraversa i loro territori sacri. Nel dicembre 2016 sembrava quasi che si fosse vinto, perché uno degli ultimi atti della presidenza di Barack Obama era stato negare all’azienda costruttrice, la Energy Transfer Partners, il permesso di realizzare l’opera per l’elevato rischio di danni ambientali proponendo piuttosto la ricerca di un percorso alternativo.

Ma già da allora, ancor prima di insediarsi, Donald Trump aveva dichiarato “deciderò io”. E così è stato. Il 7 febbraio Trump – che il 24 gennaio aveva firmato l’ordine esecutivo per rilanciare il Dakota Access– ha annunciato la prossima ripresa dei lavori.

Il tracciato sottomarino dell’oleodotto, con le inevitabili fughe di greggio, metterà a serio rischio il bacino idrico del lago di Oahe e le acque del fiume Missouri, con danni ambientali gravissimi. Il Missouri peraltro è l’unico corso d’acqua a cui i nativi possono attingere. Ma il nuovo presidente multimilionario degli Usa ha investito circa un milione di dollari nella società incaricata di realizzare la Dakota Access Pipeline, che si dovrebbe snodare per circa duemila chilometri, quasi interamente realizzati, per portare il greggio dalla Bakken Formation – una zona al confine tra gli stati del Montana e North Dakota – fino alle raffinerie del Golfo del Messico.

Le proteste di Standing Rock, che hanno destato una grande attenzione in tutto il mondo, sono diventate simbolo non solo del saccheggio irrispettoso dei territori sacri degli indiani d’America ma anche della causa più generale di chi sostiene la necessità di un diverso modello energetico, di chi ritiene che – malgrado il negazionismo istituzionale della nuova gestione degli Usa – le fonti fossili dovrebbero avere un peso sempre più marginale e tecniche come il fracking dovrebbero essere messe al bando. Stando alle proiezioni di Nature tutto il petrolio “non convenzionale” scoperto fino ad oggi dovrebbe essere lasciato sottoterra per rispettare gli obiettivi della COP21 di Parigi 2015 di limitare l’aumento delle temperature medie del pianeta a meno di 2 gradi celsius rispetto all’epoca preindustriale.

Elemento nuovo e interessante però è che alcune delle banche che avevano fin qui finanziato la Dakota Access Pipeline stanno cominciando a disinvestire trasferendo i loro fondi in altri istituti finanziari gestiti dai nativi americani, banche comunitarie riconosciute dalla Federal Deposit Insurance Corp. che mettono insieme 2,7 miliardi di asset, tutti depositi assicurati dalla FDIC; la maggior parte di loro operano in Oklahoma, ma ce ne sono anche in North Dakota, Colorado, Missouri, Iowa, Minnesota, Wisconsin, Montana e North Carolina.

«Come investitori per noi c’è troppa incertezza», ha dichiarato la Storebrand, il potente fondo pensionistico norvegese che aveva investito complessivamente 34,8 milioni di dollari nelle imprese che stanno costruendo la Dakota Access annunciando il ritiro degli investimenti. Una questione di mera redditività? Forse, ma intendono riconsiderare il percorso dell’oleodotto.

Anche la banca tedesca BayernLB ha annunciato, il 23 febbraio scorso, che vuole annullare il finanziamento della Pipeline.

I territori dei nativi americani sono diventati il luogo in cui si salda una battaglia concreta degli indiani, spalleggiati dagli ambientalisti e dagli oppositori di Trump, con le ragioni e gli equilibri degli investitori europei che intendono far pesare la loro presenza nei confronti delle nuove scelte della politica americana.

Da confronti


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21