Dalla carta stampata al blog e a facebook. Per capire e spiegare cos’è mafia oggi. Intervista ad Attilio Bolzoni

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Due mesi fa partiva il blog Mafie di Attilio Bolzoni. Un avvio del tutto irrituale con due contributi d’eccezione, e anch’essi irrituali. Letizia Battaglia, grande fotografa che dal suo obiettivo ha immortalato la storia insanguinata della mafia siciliana, e Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare antimafia. Due interventi che hanno aperto un grande confronto a tutto campo e con voci di esperti, studiosi, giornalisti, magistrati, politici.
E poi, due settimane fa, la parola è passata a quelli che Bolzoni definisce “i nostri inviati speciali”, i giovani e meno giovani cronisti che lavorano in provincia, nelle periferie oscurate, alcune volte con approccio (almeno in partenza) di puro impegno democratico poi divenuto vero “mestiere” nel senso più alto del termine. Altre volte da reporter a tempo pieno, e magari a paga quasi nulla. Ma tutti sono i garanti del nostro diritto ad essere informati. Ci piace notare che molti tra loro nel corso degli anni hanno ricevuto da Articolo21 il Premio Giuntella.
Attilio Bolzoni ci ha raccontato motivi e obiettivi di questa sua nuova strada.

Quarant’anni di esperienza da cronista di mafia nella carta stampata, e poi producendo anche documentari, e ora un blog: perché questo passaggio?

Per arrivare a tutti: con un blog, “Mafie” il nome, che ha anche una sua pagina facebook, il messaggio raggiunge persone che non mi leggerebbero sul giornale e non vedrebbero i miei documentari. Soprattutto ho capito che attraverso questo strumento arrivo a più persone possibili, specie ai più giovani, che non sarebbero neanche sfiorate da questi temi.
Inoltre, il blog mi consente di scrivere quotidianamente, e non solo io ma ospitando altri interventi, su uno stesso tema: siamo a 25 anni dalle stragi di Capaci e via d’Amelio e questo blog è pensato in memori a di Falcone e Borsellino e ogni giorno tratterò delle mafie sotto profili diversi. Sul giornale o in video questo non si può fare, il blog è l’unico mezzo che lo rende possibile, e in più a costo zero, basta uno smartphone e il proprio portatile di casa.

Com’è nata l’idea? Non si parla abbastanza di mafia?

Sono partito da una mia mancanza: fino a 7-8 anni fa annaspavo cercando di capire come si stavano trasformando le mafie. Una mancanza che era condivisa anche dallo Stato: alla stagione delle stragi è seguita un’azione repressiva impressionante che ha disarticolato Cosa Nostra. Ma dopo è mancata l’analisi sulle trasformazioni che le mafie, represse, avevano innescato. Un’analisi difficile, non ci sono colpe, perché la mafia si spostava da un terreno a un altro velocemente. Ora ho intuito il suo volto nuovo: la mafia è sempre se stessa e insieme cambia continuamente. Ci sono gravi ritardi culturali e investigativi su questo.
L’anno scorso ho iniziato questo racconto su Repubblica, il mio giornale, che anche in tempo di pace mi ha permesso di realizzare inchieste sulle mafie, anche senza morti. Ma non basta. Il blog consente di sviluppare temi in profondità, dando voce a 20-25 esperti di altissimo livello.
Sono passato, così, dalle suggestioni di Letizia Battaglia, grande fotografa che ha fatto la storia della mafia e oggi confessa di non sapere più cos’è, cosa ritrarre per raccontarla, ed è partito il dibattito, che si è spostato su una questione particolare, ma per me importante, i beni confiscati, con un confronto intensissimo, per troppo tempo da blocchi, prepotenze, incultura. Fino ad oggi, con questa serie di interventi, anche distanti tra loro, ma che hanno risvegliato l’interesse di addetti ai lavori e non solo.

Dopo un tema così complesso, strategico, hai dato voce ai cronisti di periferia, a partire da un giovanissimo, Elia Minari dell’associazione Corto Circuito di Reggio Emilia: è questione davvero di primo piano? Perché?

Prima non sopportavo i giornalisti che parlavano di giornalisti. Dieci anni fa ho cambiato idea, dopo un viaggio in Calabria; e l’interesse è cresciuto con gli anni. Scrivo da 40 anni e ho sempre lavorato da solo; ma ho anche imparato, a partire dai miei territori, la Sicilia, Palermo, che in alcuni momenti si deve fare rete. Pur avendo fama di solitario, credo di essere il giornalista di Repubblica che ha firmato più pezzi con altri colleghi del mio giornale; e anche senza firmare insieme, ho sempre coltivato questa rete secondo quanto ho imparato dal pool antimafia della Palermo anni ’80: centralizzare informazioni, scambiarsi opinioni. Quando ho iniziato ho sempre scambiato informazioni, opinioni, con Saverio Lodato, con Franco Viviano e altri, perché ci sono cose che più colleghi sanno meglio è.

Quindi ho deciso di dedicare 30 giorni ai giornalisti, oltre ad Articolo 21 e Ossigeno, e ho iniziato dal centro-nord per dare un segnale: oggi i cronisti che rischiano e che parlano di mafia li trovi da Roma in su: Abruzzo, Roma, Emilia, Lombardia. Accanto a sconosciuti, sul mio blog scrivono altri di grande esperienza come Alberto Stabile, primo corrispondente di Repubblica da Palermo che parla di fonti e giuste distanze; e chi racconta dei colleghi che i boss li supportano, muovendosi nella palude. E poi c’è la voce di chi spiega la difficoltà di fare questo lavoro con la telecamera. Altri che si scusano, come Pierluigi Senatore, perché, scrive, “pensavamo di avere i necessari anticorpi e ci siamo accorti tardi di cosa stava accadendo”, ma ora anima tanti incontri su questo in Emilia, a Mantova, luoghi di mafie impensabili fino a pochi anni fa. Altri raccontano del passato oscuro, a Palermo, in Sicilia, dove solo negli ultimi 30 anni sono morti otto cronisti, mentre altri tacevano. Quei cronisti morti vanno ricordati, penso a Pippo Fava, Mario Francese, Mauro De Mauro. E oggi diamo voce ai colleghi sotto scorta, come Paolo Borrometi, e altri, come Peppe Baldessarro che invita a non cadere nella trappola del diventare noi stessi notizia, perché restando cronisti si fa più paura. Si è aperto un dibattito che spero porti dei risultati. Poi seguiranno altri temi, fino ad addentrarci nel labirinto delle stragi.

Oggi si parla molto della corruzione: ma se ne parla nel modo giusto? Non è sempre più un fenomeno assimilabile alle mafie?

In presenza di inchieste giudiziarie definite è facile parlare di corruzione, più difficile da indagare e da raccontare senza prove. Ma è possibile per chi vuole fare davvero il giornalista. Per esempio, in Sicilia c’è un mondo di corruzione e ambiguità da raccontare, se si vuole raccontare. Se guardi ancora a Totò Riina non racconti la corruzione, pensando ancora al sangue delle stragi e alla grossolanità di quei personaggi non ti viene da parlare di corruzione; eppure in Sicilia ci sono veri e propri sistemi corruttivi, ma nessuno ne vuole scrivere, è più facile parlare dei Corleonesi, che sono un’anomalia durata solo 25 anni, ma la storia della mafia non è tutta stragista. Il primo delitto eccellente di mafia risale al 1893, il marchese Notarbartolo, il secondo è arrivato solo 78 anni dopo, con il procuratore capo Scaglione. La mafia è sempre stata quella silenziosa, più simile alla mafia che c’è oggi, che cerca la corruzione, l’ infiltrazione, il patto con lo Stato, non lo scontro. Certo che ci sono sistemi corruttivi: pensa cos’è successo in Sicilia, nel silenzio totale di prefetti, procuratori della repubblica, antimafia, giornali, sono rimasto solo a parlarne per due anni. Un governatore condannato in primo grado per associazione mafiosa e un imprenditore indagato di mafia hanno fatto la “Zona franca della legalità”, e tutti zitti. Allora non perdiamo tempo sul passato remoto, su Riina che dal ’93 è sepolto vivo in un carcere, ma guardiamo alla contemporaneità.

Qual è la responsabilità dei media?

Su questo voglio citare il caso di Riccardo Orioles e della campagna “mandiamo in pensione Orioles”, per fargli avere i benefici della Legge Bacchelli. Un appello che ha raccolto migliaia di firme, anche di grandi nomi del giornalismo con ruoli di responsabilità nelle testate per cui lavorano. Io ho firmato, certo, ma ho cercato di fare qualcosa in più: sono andato a Catania e ho scritto un pezzo per il Venerdì di Repubblica, preoccupato perché pensavo che qualche quotidiano mi avrebbe bruciato la notizia. Ma non è uscito quasi nulla sulle testate nazionali. Orioles ha una storia straordinaria con Pippo Fava, una storia difficile perché ha dovuto dormire per anni nelle stazioni qui a Roma, e poi una storia bellissima con il nuovo giornale “I Siciliani giovani”; insomma una storia ottima da raccontare, ma nessuno si è preso la briga di farlo.

E poi, sulla responsabilità dei media voglio dire un’ultima cosa. Il giornalismo d’inchiesta piace solo lontano da casa propria. A me piace parlare semplicemente di giornalismo, quando riusciamo a farlo dignitosamente è grasso che cola. Quando ho scritto sulla finta antimafia in Sicilia, una rete di “padroni”, imprenditori, che si sono impadroniti della regione; entro qualche settimana si arriverà alla conclusione di questa indagine, che ha già portato a diversi arresti. Quando scrivi di gente che si è spacciata per simboli dell’antimafia pur avendo, secondo i magistrati, da almeno 25 anni rapporti con famiglie mafiose, come si sapeva già del 2015, scoppia un grande scandalo, e ti arriva addosso di tutto, e vieni accusato di fabbricare fango, soprattutto se lo fai da solo; ecco perché è importante fare rete.


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