Zigmunt Bauman, il sociologo militante

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Alla fine degli anni settanta, il Governo canadese commissionò a J-F. Lyotard un rapporto sulle tendenze culturali della società contemporanea. La disamina sullo spirito del tempo fu minuziosa e attenta; tuttavia Lyotard non riuscì ad assegnare un nome originale a questo panorama fluido e cangiante dominato da relativismo assoluto, pragmatismo spicciolo, dissoluzione di valori e certezze, fine dell’appartenenza, individualismo esasperato – e disperato; tant’è che si rassegnò a definire questa condizione: “postmoderna”, rendendone, in tal modo, ancora più vaga e debole la fisionomia. Si deve, pertanto, alla genialità di Zigmunt Bauman, l’unico filosofo di formazione marxista sopravvissuto alla crisi del marxismo, se la cultura dominante nel tardo capitalismo ha un nome: la società liquida, una babele dove lo spazio pubblico è stato sopraffatto dal chiacchiericcio privato d’individui tanto narcisisti quanto vulnerabili, oppressi dal demone della paura che alimenta e legittima le nuove forme di sorveglianza “rese molto più efficaci grazie alla collaborazione di quelli che ne sono gli oggetti e le vittime.

Noi viviamo in una società della confessione”, una confessione volontaria e gratuita. Per comprendere il cambio di passo impresso dai media digitali sulla struttura della società, basti pensare che il saggio di Richard Sennett: “Il declino dell’uomo pubblico” del 1977, aveva come sottotitolo, nell’edizione italiana, “La società intimista”, una società che dopo la sbronza politica degli anni sessanta, rientrava nei ranghi del privato; una svolta, peraltro, già auspicata da S. Huntington nella “Crisi della Democrazia”, un rapporto sulla governabilità commissionato dalla Trilaterale che denunciava il pericolo di un “sovraccarico” di democrazia, prodotto da un eccesso di partecipazione attiva alla vita politica. In sintesi: “troppa democrazia fa male alla democrazia”.

Trascorrono vent’anni e Bauman mette sull’avviso che lo schema si è rovesciato. Grazie ai social network, la sfera privata è uscita dal suo guscio, ha rotto gli argini, ha invaso lo spazio pubblico fino a colonizzarlo con i suoi valori, il suo linguaggio e la sua visione del mondo. “Milioni di utenti di Facebook si fanno concorrenza fra loro per rivelare e mettere in piazza i loro sentimenti, gli aspetti più intimi della loro identità”. E così, la dialettica tra sfera pubblica e vita privata si è risolta con la sconfitta di entrambi i contendenti: da una parte la sfera pubblica che si sta dissolvendo sotto i colpi dell’antipolitica, del populismo e della sfiducia nelle istituzioni; dall’altra la sfera della privacy: annichilita, colpita a morte, da selfie, like e share.
Il timore di Bauman è che in un mondo che ha privatizzato anche la speranza, riducendola a polizza assicurativa, e che non crede più nell’idea di progresso, è forte la tentazione di voltarsi indietro, verso un passato mitico, procedendo come ciechi. Questo, è il presagio inquietante di “Retrotopia”, l’ultimo lavoro di Bauman. Se si pensa che sono trascorsi poche decine di anni dal futuro-nuovo auspicato da Ernst Bloch ne “Il principio speranza”, verrebbe da dire, con le parole di Woody Allen, che “anche noi non ci sentiamo molto bene”.


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