Lettera aperta al maestro Riccardo Muti

0 0

Maestro Muti,

io non sono che uno delle centinaia di migliaia, anzi di milioni di persone che amano la musica. L’amano per i  suoni, i colori e per le emozioni che trasmette quando celebra le passioni ed i sentimenti umani: l’amore, la gioia la felicità e il dolore, l’abbandono, il furore, l’angoscia, la vita, insomma.

Una delle più grandi emozioni, forse la maggiore, che la musica mi ha dato me l’ha donata lei, anni fa, quando  assistetti per televisione ad una sua esecuzione del Nabucco. I media avevano informato del  suo impegno  per renderla  anche filologicamente perfetta. L’attesa non fu delusa: si trattò di un’edizione straordinaria durante  quale un’emozione rincorreva un’altra. Durante    “Va pensiero”     parve che al mondo non vi  fosse altro che musica;   musica che avvolgeva  ogni cosa,   tutte e tutti.  Musica e dolore. Sì anche dolore: il dolore di un intero popolo che cantava  la sua sofferenza e la sua speranza. Quel dolore fu contagioso, divenne   di tutti; come   la   preghiera e la  speranza  che divennero anche nostre.   Quando risuonò l’ultima nota    il tempo per qualche attimo  fu come sospeso: attimi di incredulità e di silenzio assoluto. Poi, liberatorio, un diluvio di applausi; applausi che sembravano non voler terminare. Applaudimmo anche mia moglie ed io davanti al televisore, con gli occhi umidi. Si racconta che anche alcune coriste dovettero asciugarsi gli occhi quella volta. Lei i nostri applausi non poté sentirli, né quelli di tanti e tante altre,  ma solo  quelli di chi    era   in sala. Però dovette avvertire che era accaduto qualcosa di importante, che il prolungarsi dell’applauso esigeva che la magia si rinnovasse  e trovò  il coraggio di violare le ferree regole dell’Opera e di  rompere  la  tradizione    concedendo un bis. Gliene fummo grati.

Ora, maestro Muti, io mi permetto di chiederle di impiegare quello stesso  coraggio   per una decisione esattamente opposta: disdica il suo impegno a recarsi a far  musica in Israele. Qualunque musica suonasse non servirebbe che a coprire l’urlo del Popolo Palestinese che pretende il diritto di vivere in libertà e dignità sulla sua terra e ad   imbellettare uno Stato coloniale, impegnato con il suo esercito, il più potente dell’area, a tenere sotto   occupazione un altro popolo, a depredarlo della sua terra e delle sue risorse, a negargli il diritto di vivere con dignità ed in libertà sul “suolo natio”.   Per questi motivi lo Stato Israeliano dal 1967 ad oggi  è stato condannato dall’ONU 87  volte,  e sia l’ONU, sia l’U.E. hanno dichiarato illegali le 140 colonie  che  Israele ha  insediato sul suolo della Palestina Occupata,     costruendole  con modalità che  il IV Comma dell’articolo 8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale dichiara “crimini di guerra” e nelle quali vivono abusivamente 650.000 coloni.

In un simile contesto non basteranno né   spartiti straordinari,     né  musicisti, cantanti e cori bravissimi  e neppure la sua arte a rinnovare   la magia della musica. Affinché la musica diventi incantesimo occorrono anche ascoltatori ed ascoltatrici dall’animo sgombero da risentimenti e rimorsi, che   riescano a stare  in pace con se stessi e con gli altri, almeno per un po’. Ed un pubblico così non sarà  facile trovarlo in Israele,  perché  come  giorni fa ha detto qui a Roma  Atalya Ben-Abba,   una giovane cittadina israeliana renitente di leva, la sicurezza di quel paese è basata sull’oppressione di un altro popolo. Per opporsi a questo stato di cose, Atalya, a 19 anni, ha scelto di farsi processare e condannare e per questo è tornata in Israele. Per questo stesso morivo, lei, maestro Muti, non ci vada.

Glielo chiedo in nome delle tante emozioni che mi ha regalato.

 

*Della Rete Romana di solidarietà con il Popolo Palestinese.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21