Un colpo di stato ne nasconde un altro

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Un colpo di stato ne nasconde un altro. Ieri mattina erano stati arrestati 2800 militari, dei 260 morti la maggioranza sono uomini dell’esercito che nella notte avevano partecipato al tentativo di golpe, almeno uno è stato decapitato dalla folla davanti alle telecamere, cacciati o arrestati 3000 giudici, Erdogan ha puntato l’indice accusatore sul ricco imam Fethullah Gülen e sugli Stati Uniti che lo ospitano, per alcune ore è stata tolta l’elettricità e sono stati impediti i voli in prossimità e intorno alla base americana di Incirlik. Tutto fa pensare che Recep Tayyip Erdogan voglia chiudere i conti con gli apparati dello stato che non l’hanno sostenuto in pieno o ne hanno moderato l’azione. Repubblica e Stampa annunciano la “vendetta” di Erdogan, il Corriere parla di un “braccio di ferro”. Vediamo con chi.

Uno scontro interno al regime. Di questo mi pare che si tratti: Erdogan non ha accusato le opposizione democratiche, le quali, semmai, prendendo le distanze dai militari lo hanno aiutato ad avere il sopravvento. Non ha denunciato un presunto spirito laicista, kemalista, sopravvissuto nelle forze armate e ostile al suo islamismo: al contrario il presidente continua a presentarsi con l’immagine di Ataturk dietro e a sbandierare la bandiera dell’unità e del nazionalismo. I suoi nemici di questo momento sono presto detti. Chi ha accusato il presidente e il suo entourage di corruzione: gli arresti dei giudici, dopo il bavaglio ai giornalisti, stanno a testimoniarlo. Chi (come Gülen) aveva scelto di puntare su un Islam turco, insieme mistico e disposto al confronto multiculturale, e non ha condiviso la strumentalità religiosa dell’aspirante sultano, prima protettore dei fratelli musulmani, poi, addirittura alleato degli wahhabiti sauditi. Chi, nell’esercito, lo considerava ormai un pazzo instabile e perciò non affidabile: significativa la partecipazione al colpo di Stato del comandante della seconda armata, Adem Huduti, responsabile del confine con Iraq e Siria e dei bombardamenti a dei villaggi curdi, ma anche di alcuni comandanti della terza armata, che copre la regione del nord est, al confine russo. Erdogan ora chiede: “un unico stato”.

Il futuro è la democrazia, scrive sul Corriere Orhan Pamuk che si dice “molto dispiaciuto per il tentato colpo di stato militare” e “molto contento che i partiti di opposizione non l’abbiano sostenuto”. Ora Erdogan si è legato alla piccola – e piccolissima, cioè camerieri e venditori ambulanti, – borghesia che si ritrova nelle moschee, un ceto islamico e nazionalista, abituato a vincere nel voto democratico (grazie a Erdogan) e non disposto a delegare le scelte alla borghesia degli apparati, civili e militari, che è più abbiente e su cui plana il sospetto della corruzione. E l’altra Turchia, quella che negli ultimi anni si era ribellata contro Erdogan? “La societa turca – dice alla Stampa Yesim Ozsoy, attivista di Gezi Park – è spaventata dalla repressione e adesso si nasconde”. Non si schiera “né col presidente né coi soldati”. Sempre alla Stampa Al-Aswani, scrittore egiziano, sostiene che anche i turchi “sono prigionieri di due fascismi”, uno politico l’altro militare. Tuttavia – osserva – mentre, dopo Morsi e i fratelli musulmani, al Cairo quasi tutti consentirono con il colpo di stato di Al Sisi, in Turchia una metà della popolazione è rimasta fuori dallo scontro e ora potrebbe farsi sentire. Tanto più che il presidente vincitore è impegnato su un altro fronte, ossessionato dalle coperture internazionali che sarebbero state date ai golpisti, si prepara a un braccio di ferro con gli americani e chiede l’estradizione di Gülem. È probabile che avremo una Turchia ancora più nazionalista, in politica estera, e sull’orlo della guerra civile, all’interno.

Mohamed Lahouaiej Bouhlel è un soldato dell’Isis. Dopo questa rivendicazione di paternità da parte del califfato, tutti dovrebbero convenire con quel che taluni osservatori – e io fra questi – scrivono da mesi. La dottrina wahhabita, nella interpretazione di Al Qaeda e ancora meglio in quella proposta del califfato, rappresenta una forma di anti mondializzazione radicale. Al progresso, alla libera circolazione delle merci e delle idee, al nesso pubblicità-libertà-diritti, i tagliagole vestiti di nero contrappongono l’obbedienza assoluta ad Allah e al califfo, il ritorno integrale ai costumi di un medio evo guerriero e patriarcale, la violenza purificatrice (che è distruttiva e auto distruttiva). Una ideologia che attrae soprattutto persone con forte disagio mentale, da Omar Baaten a Mohamed Bouhlel, le quali trovano nella storia familiare, nelle origini etniche, ma anche soltanto nelle memoria degli orrori imperialisti, la molla per dare un taglio alla vita di prima, per “rinascere” e proporsi come vendicatori. Tutto qui. Il disagio sociale, in genere, non è diretto, cioè non è stato vissuto nella propria vita particolare dal terrorista, ma è stato narrato e mitizzato. È diventato frustrazione storica, motivo di vergogna, ragione di odio per la propria comunità, il cui onore va riscattato con il sacrificio estremo: uccidere all’ingrosso e ammazzarsi.

Tutto questo ci interpella e ci inquieta. Perché con tutta evidenza non sta più funzionando il nostro modello di mondializzazione, perché vengono a galla tutte le contraddizioni della politica imperialista, perché il senso di impotenza ci spinge a “esternalizzare” il pericolo. Cioè a vedere in ogni evento (tragico) la conseguenza di un piano del nemico. Federico Fubini, che continuo a considerare uno dei giornalisti più intelligenti, attribuisce oggi all’Isis l’intenzione di far vincere a Marine Le Pen le presidenziali francesi e di abbattere l’Unione Europea. Troppa grazia. Al massimo i terroristi magrebini (che meglio conoscono la Francia) arrivano a intuire l’alternativa radicale del loro credo e dei valori della Grande Rivoluzione e dell’Illuminismo. Per il resto siamo noi stessi – noi europei, noi americani – che travolti da un cambiamento straordinario dei costumi, del modo di vita, dei valori (cambiamento che abbiamo imposto al mondo ma non sappiamo governare), siamo noi ad alimentare questa anti mondializzazione mortale. La quale, alla fine, è soltanto un nostro incubo che ritorna non da un altro mondo, ma da terre vicine che credevamo di aver completamente assoggettato. Mi spiego: non c’è più la super potenza che provvede a tutto, non si è instaurato un equilibrio multi polare, l’Unione Europea, fondata solo sugli interessi e la moneta, si sta disgregando, secolarismo e consumismo minano costumi e ideologie patriarcali che erano a fondamento anche della cultura giudaico massonica, a partire dal 1989 si è voluto negare alla radice persino l’idea che lo stato presente delle cose si potesse ribaltare e si è dichiarata la fine della storia. Tutto ciò genera ansia, incuba mostri della fantasia che si trasformano, prima o poi, in mostri reali. Curare le nostre ferite culturali, dare un futuro al ceto medio (magari puntando su consumi collettivi e nuovi stili di vita), eliminare lo Stato Islamico dal Siraq, smettere di appoggiare regimi autoritari, dispotici e corrotti, rispettare i migranti e pretendere il loro aiuto contro chi vuole distruggere tutto. Non è impossibile, ma servono audacia, più democrazia e trasparenza, visione del futuro.

Da corradinomineo


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