Mafia e informazione, cosa è cambiato?

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Sono trascorsi più di cinquant’anni tra la conclusione dei lavori della prima Commissione parlamentare per la lotta alla mafia, presieduta dal magistrato lucano Donato Pafundi nella quarta legislatura repubblicana e conclusa con i suoi lavori nel 1968 e la scelta della Commissione in corso presieduta dall’on. Rosy Bindi, di dedicare una relazione speciale ai rapporti tra il fenomeno mafioso e il mondo dell’informazione.

Il vicepresidente, on. Claudio Fava, ha detto subito che oggi è urgente discutere del fatto che il Paese conta duemila giornalisti minacciati dalle associazioni mafiose negli ultimi quattro anni.  Da una parte ci sono le piaghe di querele temerarie e di diffusione eccessiva del lavoro precario, dall’altra ci sono le “teste piegate”, editori sempre più concentrati in poche società con inedite fusioni di testate e società, che si prestano  al gioco mafioso e di fatto lo alimentano. Di qui l’impegno della Federazione Nazionale della Stampa e del suo presidente Giuseppe Giulietti che decide di schierarsi a sostegno delle proposte che prevarranno e si metterà a disposizione della campagna che si deciderà di intraprendere.  C’è da chiedersi allora che cosa è cambiato nell’ultimo cinquantennio rispetto al passato ?

Un tempo le associazioni mafiose italiane-ricordiamo che si tratta dell’associazione siciliana(in cui sono arrivate successivamente le stidde locali ),la camorra campana, la ndrangheta calabrese e in un momento successiva la Sacra Corona Unita nata dall’incontro tra camorra e ndrangheta meridionali- volevano soltanto intimidire e quindi colpire chi si ribellava, oggi vogliono anche condizionare perché hanno bisogno di legittimazione sociale e territoriale, hanno bisogno di esibire un  diffuso consenso. Il consenso è diventato importante politicamente per garantire l’impunità dei mafiosi e questo ha portato a un livello crescente di interventi sulla stampa, di minacce e di avvertimenti ma anche a un mutamento degli strumenti usati. Ormai si minaccia spesso ricorrendo a strumenti giuridici-usati in maniera illegittima- o economici: creare una sorta di isolamento a una redazione, a un editore, a un giornale a un giornalista per determinare condizioni di dipendenza o di condizionare.  Rispondendo ai giornalisti nella sala stampa di Montecitorio, il vicepresidente Fava chiarisce gli aspetti più significativi della relazione approvata dalla Commissione:” Le querele temerarie contro i giornalisti riguardano un terzo dei casi, del tutto infondate sul piano giuridico ma destinate sul piano materiale a produrre effetti. Poco importa se chi è citato in giudizio sappia di avere ragione; ciò che importa è che si deb bano affrontare spese legali e condizionamento piscologico, mentre dall’altra parte c’è un soggetto che non ha alcun problema sul piano economico. C’è quindi uno squilibrio di forze. ” Gli si chiede.” Come si può intervenire?” E Fava risponde:” Bisogna che chi agisce non per ottenere risarcimento ad un’offesa ricevuta ma semplicemente per intimidire, condizionare dolo samente, debba essere chiamato a pagare e non soltanto le spese legali legate al procedimento giudiziario. C’è un emendamento all’esame in Commissione Giustizia sul Processo Civile che tratta della possibilità per i giudici di condannare a un’ammenda che copra fino al 50 per cento della richiesta. Questo mi sembra un risultato importante qualora passasse, perché a quel punto chi,in modo millantato, pretende di aver ragione e chiede dieci milioni di risarcimento, con il rischio di doverne restituire cinque allo Stato ci pensa due volte.” E gli si chiede che cosa si può fare di fronte al “caporalato” nell’informazione. E il vice-presidente replica:” Buona parte dell’informazione, soprattutto quella più esposta, di frontiera, è affidata a giornalisti spesso precari, freelance la cui caratura professionale sul piano economico è minima, pagati pochi euro a pezzo e costretti anche a rischiare la pelle. Su questo bisogna immaginare un intervento su più livelli anche in Parlamento. Tocca alla Commissione Antimafia fare in modo che cambi l’atteggiamento da parte del Paese, della FNSI, dell’opinione pubblica che è poi l’utente immediato del Paese. Il peso della relazione dipenderà dall’eco che avrà e potrà riuscire non soltanto a costruire percorsi legislativi nelle Camere ma anche ad aprire una discussione nel Paese e di questo ce n’è molto bisogno.”


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