Olof Palme, il coraggio di un riformista

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Olof Palme e il suo coraggio, Olof Palme e la sua dignità, Olof Palme e la sua idea di una società aperta, solidale, realmente socialdemocratica e fondata sull’idea di essere una comunità in cammino.
Olof Palme e la sua visione rivoluzionaria della politica che lo indusse a compiere battaglie rischiose ma eticamente imprescindibili, come quelle contro la guerra del Vietnam, l’apartheid in Sudafrica e la proliferazione delle armi nucleari (indimenticabile lo studio dei problemi relativi al disarmo messo a punto da una commissione da lui presieduta e conosciuto, per l’appunto, come “Rapporto Palme”).

Olof Palme, trent’anni fa: un dolore enorme dietro un omicidio che lo pone al fianco di altre grandi figure politiche cadute mentre stavano tentando di rendere migliore il proprio paese. Palme come i fratelli Kennedy, come il connazionale Hammarskjöld, il quale si batteva in favore dell’Africa, contro i pericoli di una nuova colonizzazione ad opera delle potenze dominanti, come Martin Luther King e Malcolm X: personalità diverse, probabilmente incomparabili, eppure accomunate dalla stessa concezione della politica come servizio alla collettività, come impegno in favore del bene comune, come dovere, come sacrificio, fino a quello estremo della propria stessa vita.

Olof Palme era un riformista autentico, un uomo che voleva combattere la povertà senza rifugiarsi nel populismo gratuito e falsamente robinhoodesco di chi proclama che per rendere più uguale la società basta tartassare i ricchi, anche perché di solito a ribadire con enfasi questa teoria sono i ricchi medesimi, abilissimi nel fissare parametri di ricchezza iniqui che finiscono col penalizzare unicamente il ceto medio, additato al pubblico ludibrio e trattato da ladro quando, dal dopoguerra in poi, costituisce la spina dorsale di tutte le società occidentali.
Palme, al contrario, credeva nella redistribuzione della ricchezza, che è cosa ben diversa, e nella possibilità per gli operai di partecipare in misura crescente alla proprietà dell’azienda in cui lavorano, in cambio della rinuncia, parziale o totale, agli aumenti salariali, così da favorire il mantenimento sia di un elevato livello di investimenti sia di un buon tasso d’occupazione (il famoso “piano Meidner”, dal nome dell’economista Rudolf Meidner che – come si legge sull’Enciclopedia Treccani – “prevedeva la creazione di ”fondi dei salariati”, amministrati dal sindacato, a cui le imprese avrebbero dovuto trasferire annualmente un ammontare di azioni, appositamente emesse, in proporzione ai profitti conseguiti: nel giro di qualche decennio, secondo il ritmo del processo di accumulazione, i fondi avrebbero potuto acquisire posizioni di controllo nelle maggiori industrie del paese).

In pratica, aveva capito, con trent’anni d’anticipo che anche il welfare era destinato a cambiare e che, dunque, bisognava riorganizzarlo, non smantellarlo, renderlo più inclusivo, estenderlo ai ceti sociali che ne erano esclusi e porlo a fondamento di una società di cui lo statista svedese comprendeva i mutamenti e alla quale indicava un orizzonte nuovo, un ampliamento di prospettive, un’apertura effettiva che avrebbe scongiurato le chiusure grette e drammatiche che stanno rendendo anche il Nord Europa timoroso delle novità, incapace di analizzarle, di misurarne la portata, di accoglierle con la curiosità necessaria per immaginare il futuro e interpretarlo con uno sguardo all’insegna di un motivato ottimismo.
Olof Palme e la sua idea di una società che si tiene per mano, nella quale ciascuno compie la propria parte e nessuno si tira indietro: una società capace di assumersi le proprie responsabilità e di porsi come modello, senza alterigia, senza prepotenza, guardando agli altri paesi con il rispetto e la cortesia indispensabili per instaurare un proficuo rapporto di collaborazione.
Se dovessi tratteggiare il profilo di un riformista di sinistra, restituendo ad un termine abusato il suo significato originario, direi che dovrebbe possedere le caratteristiche di questo visionario svedese che seppe governare e non comandare, guidare i processi e non solo assecondarli, costruire un modello di società e non imitare malamente gli esempi, peraltro pessimi, che facevano la parte del leone negli anni del liberismo sfrenato e dell’egoismo elevato a virtù e, infine, che seppe essere un leader sorridente, mai sopra le righe,  in grado di farsi apprezzare per la propria sobrietà e per la propria straordinaria intelligenza.
Di Olof Palme, a trent’anni da un assassinio che non ha ancora avuto, e forse non avrà mai, un colpevole, rimangono l’autorevolezza, la nostalgia, il ricordo, l’audacia che lo spinse a compiere l’impresa di rimanere se stesso, senza indossare maschere di convenienza né piegarsi alla “nouvelle vague” del riformismo fasullo e contrario alle esigenze delle persone.

Seppe essere popolare senza sfociare nel populismo, seppe difendere gli interessi della sua gente senza cedimenti, tracciò un cammino e lo percorse con orgoglio, cadde in nome dei suoi ideali di giustizia e oggi, nella stagione dell’ignoranza al potere e della “damnatio memoriae” nei confronti del passato, è stato quasi dimenticato. Eppure il suo volto sereno è ancora lì, insieme ai suoi sogni, alle sue speranze e a una concezione alta e nobile della politica della quale avremmo più che mai bisogno. Proprio per questo, nonostante tutto, la sua immagine ha resistito allo scorrere del tempo, allo sfiorire delle culture politiche, all’inaridimento della sinistra, alle difficoltà globali incontrate dalla socialdemocrazia e al fiume carsico dell’odio e dell’incomprensione che puntualmente riemerge, aggravato da una crisi che non è solo economica e che ha stravolto il nostro modo di vivere, di pensare e di concepire i rapporti umani. Perché la buona politica è più forte di tutto.


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