Come i media arabi raccontano la crisi dei rifugiati

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L’associazione Carta di Roma ha tradotto e pubblicato un articolo realizzato dal Media Diversity Institute sul modo in cui i media arabi stanno raccontando e affrontando la crisi umanitaria che vede protagonisti i rifugiati (l’originale è disponibile qui).
Ve lo riproponiamo

Quando milioni di rifugiati siriani hanno iniziato a intraprendere un pericoloso viaggio verso l’Europa e a perdere la vita lungo il percorso, le loro storie hanno iniziato a dominare i quotidiani arabi, gli show televisivi più popolari e i social network. Tra i temi trattati dalla copertura mediatica la condanna della presunta indifferenza araba, l’appello a riforme interne e le critiche all’Occidente.

Alcuni media dei paesi arabi hanno espresso indignazione nei confronti dei leader del Golfo, accusandoli di essere gli “elefanti nella stanza” (espressione inglese con la quale si fa riferimento a un problema noto che si finge di ignorare o che non si vuole affrontare) a proposito della mancanza di supporto e di responsabilità nei confronti dei rifugiati siriani. The Gulf Times, quotidiano in lingua inglese edito in Qatar, mette a confronto i cartelli di benvenuto che salutano i rifugiati in Austria e in Germania col silenzio del Golfo. Muhammad Hussein, un editorialista del quotidiano egiziano Al-Ahram, ha scritto che la foto divenuta virale di Aylan Kurdi riassume tutti i disastri che affliggono il mondo arabo.

Questa storia ha ulteriormente sollecitato alcuni utenti di social media arabi a chiedere come mai le monarchie ricche in petrolio evitano di essere coinvolte e di offrire il loro aiuto ai rifugiati che viaggiano tra Siria e Europa. L’hashtag arabo #welcoming_Syria’s_refugees_is_a_Gulf_duty è stato twittato oltre 40mila volte, secondo la Bbc. Altri tweeth hanno fatto ironia sulla proposta dell’Arabia Saudita di costruire in Germania 200 moschee per i richiedenti asilo musulmani, mentre i paesi europei si sono impegnati ad accogliere oltre 4 milioni di rifugiati, secondo le stime Unhcr.

Vignetta di Carlos Latuff.

Anche le vignette sono state usate largamente nel mondo arabo. Un fumettista saudita, Aiman Yanallah ha disegnato una vignetta intitolata “La risposta araba” in cui ritrae un uomo arabo ritwittare l’immagine di Aylan, facendo riferimento alla cultura dello slacktivism (quella forma di “attivismo” che consiste nel solo atto del mostrare supporto per una causa e che non ha effetti concreti se non il beneficio che ne trae l’ego di chi ne è fautore – è ciò che avviene, per esempio, quando l’utente dei social media condivide immagini, frasi o notizie a sostegno di una causa senza impegnarsi in alcun altro modo per il cambiamento della situazione che sembra avere a cuore). Un’altra vignetta, di Carlus Latuff, ha per protagonista uno sceicco del Golfo che scuote il dito di fronte a una barca carica di rifugiati, mentre indica col pollice all’insù i guerriglieri ribelli in Siria.

Vignetta di Juan Zero.

«Stiamo ospitando i rifugiati siriani, ma solo se hanno la cittadinanza kuwaitiana», dice l’emiro del Kuwait nella vignetta di un fumettista siriano. Il quotidiano saudita Makkah Newspaper che mostra, invece, un uomo in abiti tradizionali del Golfo nascosto dietro una porta mentre indirizza un rifugiato verso un’altra porta con la bandiera europea (vedi l’immagine sopra).

Dall’altra parte alcune testate di proprietà dello stato cercano di giustificare la posizione del Golfo. Affermando che i paesi che lo compongono hanno generosamente finanziato aiuti ai siriani, Abdel Khaleq Abdullah, docente di Scienza politica presso l’Università degli Emirati Arabi Uniti, ha scritto che il suo paese ha accolto oltre 160mila siriani negli ultimi 3 anni e che l’accusa di non far nulla, dunque, non è giusta.

Altri commentatori hanno rivolto la propria ira verso gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali, biasimandoli per non essere intervenuti con forza contro Assad, poiché ritengono che un tale intervento avrebbe potuto bloccare la crisi umanitaria dei rifugiati.  Nasser Al Khalifa, ex diplomatico del Qatar, per esempio, si è sfogato su Twitter, accusando le autorità occidentali di piangere lacrime di coccodrillo e di aver “osservato i siriani essere uccisi dalle armi chimiche e dai barili-bomba di Assad per cinque anni».

Messaggi politici sono stati diffusi subliminalmente da diversi importanti media arabi. La popolare presentatrice egiziana Reham Saeed è andata incontro a moltissime critiche sui social media dopo aver mandato in onda, durante il suo programma su Al Nahar Tv – un canale privato, un video sui rifugiati siriani, nel quale lei stessa distribuisce cibo e vestiti in un campo libanese. Nel servizio definisce i rifugiati «persi e rovinati», aggiungendo che «gli egiziani dovrebbero sostenere l’esercito se non vogliono fare la fine dei siriani». «Il nostro esercito si trova ai confini, per evitare che ciò accada a noi», ha affermato Saeed nel suo show. Tali commenti hanno fatto inferocire parte della comunità egiziana spingendola a porre domande sulla propaganda fatta dai media.

Pochissime testate arabe si sono focalizzate sulle vite dei rifugiati siriani nei paesi di adozione. Al-Ahram, un quotidiano di proprietà statale, per esempio, si è interrogato sulle sfide culturali poste da questa “crisi”. Ahmed Esmat, redattore di Alex Agenda, un magazine egiziano locale e privato, ha spiegato al Media Diversity Institute: «La copertura mediatica si è sempre e solo focalizzata sulla crisi, nessuno racconta le storie di successo dei rifugiati siriani, di come essi stiano facendo i conti socialmente e culturalmente coi paesi ospitanti, dei ristoranti e dei negozi che stanno aprendo, dei progetti che dirigono e dell’effetto che hanno sull’economia.

Fonte: Carta di Roma


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